Datemi una mappa, e stenderò un programma di esplorazione
coi fiocchi. Il giorno 2 è stato interamente dedicato alla Singapore etnica, e
ha rivelato molte belle sorprese.
Partiamo da Chinatown, che si trova a sud della città, oltre
il Central Business District che ho visitato il giorno prima. L’etnia cinese è
la più numerosa della città, e pare che sia anche la più ricca. Ma la Cina che
ho scoperto nel quartiere non fa pensare ai cinesi arricchiti che frequentano
le boutique del centro, bensì a quelli di Grosso guaio a Chinatown. Appena uscita dalla metro, la
seconda cosa che mi colpisce (la prima è l’afa) sono gli odori: fritto, incenso
e qualcosa che mi fa pensare a medicine al mentolo. Finisco in una via
affollatissima, decorata con un mucchio di lanterne rosse, costeggiata da
bancarelle a destra e a manca. Curiosamente, le costruzioni non ricordano in
alcun modo l’architettura cinese (argomento su cui sono estremamente ferrata,
come vi lascio immaginare…), ma sono imparentate più da vicino con le
costruzioni coloniali del XIX secolo, simili a quelle che ho visto anche a Little India la prima sera
in città.
Già di norma il mio senso dell’orientamento fa difetto: qui
mi ha praticamente chiesto la libera uscita e mi ha lasciato lì in mezzo alla
via, senza la minima idea di dove andare. Nel dubbio, salgo verso il cielo,
dove l’aria è più respirabile. Prendo un passaggio sopraelevato e attraverso la
strada. Per finire dritta dritta in un mercato coperto. Giuro che il primo
pensiero è stato: lasciate ogne speranza voi ch'entrate. O, a essere onesti:
Ila, da qui non ne esci viva. C’è più spazio fra due file di sedili in aereo che
fra una bancarella e l’altra. E quanti articoli! Gli aggeggi di elettronica
vanno per la maggiore, ma anche tanto abbigliamento, cianfrusaglie varie,
giocattoli… tutto coloratissimo e pacchiano.
Agenzie di viaggi, centri
estetici, negozi di parrucche, cambiavalute (gestiti rigorosamente da indiani
però). Qui sotto è tutto molto meno turistico, bensì indirizzato a una
clientela soprattutto locale. Cosa ancora più vera quando finisco nella food
hall, una specie di centro commerciale dedicato al cibo: un salone - piuttosto
squallido - occupato al centro da un sacco di tavoli rotondi e delimitato da
chioschi che offrono piatti delle cucine più diverse. Gli odori sono
fortissimi, c’è poca aria (sembra di essere in uno scantinato), ma lo
spettacolo è in qualche modo affascinante. Famiglie, anziani solitari,
gruppetti di adolescenti, giovani professionisti sono qui a passare il sabato
pomeriggio, e spendono parecchio del loro tempo davanti a un'enorme ciotola di
zuppa dal contenuto se non altro dubbio, o dividendosi un piatto a base di
pesce e verdure.
Credo di essere l’unica occidentale qua sotto. Avanzo con la
mia macchina fotografica in mano, e temo di dare l’impressione scortese di
essere in visita a uno zoo, da come mi aggiro curiosa fra i tavoli. Meglio
affrettarsi verso l’uscita, che sembra non arrivare mai. Eccola invece. E che sorpresa!
Sopra la porta che mi reintroduce all’interno del centro commerciale vero e
proprio c’è il mio amico, il Colonnello Sanders, che mi sorride benevolo.
Sapevo che ti avrei trovato qui, fuori dalle rotte più turistiche, in mezzo
alla piccola gente! Apro la porta, ed ecco il KFC di Chinatown! Ovviamente devo
fare la foto. Fermo una coppia di giovani cinesi e chiedo loro se possono farmi
il favore. Il ragazzo si presta divertito, e intanto mi chiede: “Da dove vieni?
Non c’è il KFC al tuo paese?” Eh no, caro mio. Se vogliamo fare un appunto
all’Italia, non ci sono KFC (per inciso, ho scoperto che negli anni ’70 ce
n’era uno a Napoli). Ringrazio, saluto, e tutta contenta proseguo il mio
vagare. Ho voglia di uscire di nuovo all’aperto, voglio vedere cosa c’è a
Chinatown oltre ai centri commerciali e ai ristoranti. La guida mi dice che,
fra i punti di interesse, c’è un tempio induista, un tempio buddista e una
delle più antiche farmacie tradizionali cinesi della città. Facendomi largo fra
gli altri turisti e procedendo un po’ a caso, trovo il primo segno che mi
suggerisce che forse sono sulla strada giusta: la statua di una vacca in cima a
un muro, in compagnia di diversi piccioni.
Sarà mica il tempio induista?
Risposta esatta!
Sfortunatamente è
chiuso, o meglio: il complesso è aperto, ma gli edifici non sono visitabili.
Poco male, è il mio primo tempio induista, non mi lascio sfuggire l’occasione.
Mi levo le scarpe, che vanno lasciate fuori (ma non mi fido, me le infilo in
borsa), e mi appresto alla porta d’ingresso, sormontata da una specie di
piramide fatta di figure semi-umane e bestiali coloratissime. Sono emozionata,
sul serio. È la prima volta che vedo una cosa del genere, un’opera dell’ingegno
umano così diversa da quello cui sono abituata. All’interno ci sono diversi
altri edifici, di cui solo uno, una sorta di portico, permette una vista che
vada al di là dei semplici tetti (sempre popolatissimi di figure mostruose e
titaniche). I soffitti del portico sono decorati con dipinti dai colori molto
vivaci, che riportano scene di chissà quale ciclo mitologico, motivi circolari,
fiori… Spesso le figure umane hanno un sacco di braccia. Inquietante.
Giro fra
un edificio e l’altro, scalza, e l’asfalto è a dir poco aggressivo: il sole
picchia cattivo! Qui non c’è nient’altro da vedere, corro verso l’uscita, lavo
i piedi alla fontana e saluto le divinità indiane. Curiosità: la strada su cui
si affaccia il tempio, Pagoda Street, prende il suo nome proprio da questo
edificio, perché in passato si tendeva a confonderlo con una pagoda, appunto.
Comunque, a questo punto posso tornare in Cina. Sulla stessa
strada c’è l’altro luogo che cercavo, la farmacia. Io pensavo di trovare una
specie di museo, o almeno una cosa un po’ losca… e invece entro in un punto
vendita modernissimo, con gli scaffali che però espongono sia prodotti
farmaceutici classici sia articoli un po’ più esotici. All’ingresso c’è la
statua del fondatore della farmacia e un angolo dedicato a illustrare i
vantaggi della medicina basata sui nidi di rondine. Cioè, in inglese erano
generici bird’s nest, nido di rondine lo dico io. Mentre mi avvicino, una
gentile signora con l’aria da bidella mi offre un bicchiere di tè al
ginseng. È solo un bicchierino, ma lo trovo corroborante, le gambe mi sembrano
più leggere. Probabilmente è solo suggestione.
È ora di uscire dalla farmacia, che non offre molto, e
andare alla ricerca del tempio buddista. Che trovo per caso pochi metri più in
giù. A dire la verità, pensavo si trattasse di un hotel. Avvicinandomi però
avverto un intensissimo odore di incenso e sento una cantilena insistente.
L’odore proviene da un enorme braciere posto all’ingresso del tempio, dove la
gente infila dei bastoncini di incenso dopo averli agitati un po’ per pregare.
La cantilena proviene dall’interno, dove si svolge una cerimonia buddista. Sembra
che dicano il rosario.
Non so neanche da dove cominciare per descrivere il
tempio. Posso dire solo rosso, oro e un po’ pacchiano. Pieno di statue del
Buddha di ogni dimensione. È un tempio su più piani: in cima, al centro di un
giardino, c’è un’enorme ruota di preghiera; al livello inferiore è custodita, al centro di una sala
per la meditazione, la reliquia del Buddha, un dente. A me le reliquie hanno
sempre fatto impressione e a dire il vero non le prendo neanche troppo sul
serio, quindi non mi soffermo più di tanto. Certo che anche questo posto mi fa
un certo effetto: dopo il mio primo tempio induista, questo è il mio primo
tempio buddista. Che giornata impegnativa.
Ma è arrivato il momento di lasciare Chinatown e spostarsi
verso Little India, che si trova molto più a nord, oltre il fiume. Mentre
percorro una delle arterie principali del quartiere cinese, passo davanti a un
negozio di sartoria, dove c’è un uomo che sta lavorando alla macchina da
cucire. È questione di un secondo: alza un attimo lo sguardo mentre sto
passando e mi rivolge un “Hola”, scambiandomi naturalmente per spagnola. Quasi
in maniera automatica ricambio il saluto e lui si illumina, chiedendomi di dove
sono. Mi spiace deluderlo: “Italiana”, ma evidentemente gli piace anche questa
risposta. Mi avvicino alla sua postazione di lavoro e iniziano le domande di
rito: sei qui in vacanza, dove vai, quanto ti fermi… Per il momento sono ancora
indecisa se parlare in inglese o in spagnolo, confesso di essere un po’ incerta
su entrambe le lingue. Però il sarto ha una voglia di chiacchierare così
grande, che dopo pochi minuti dei soliti scambi di circostanza mi
sciolgo e mi siedo a uno sgabello accanto a lui. Dopotutto, sono ore che
cammino e non mi fermo un attimo. Ci presentiamo: si chiama Muhammed e viene
dalla Turchia. Mi chiede se può offrirmi qualcosa. “Ce
l’hai il caffè turco?” “Indonesiano.” “Andata!” Così è iniziata un’amicizia di
una ventina di minuti, una delle più improbabili che mi siano capitate.
Muhammed ha iniziato a raccontarmi della sua vita, della sua famiglia, dei suoi
lavori precedenti, della diplomazia che serve nel mestiere del sarto, mi ha
mostrato le foto di sua moglie e di sua figlia, e intanto si preparava una
maglietta alla macchina da cucire. Da parte mia gli ho raccontato un po’ dei
miei progetti, della mia famiglia, dei miei viaggi… Tutte cose che voi già sapete.
Alla fine mi sono rimessa in cammino, ma più che camminare galleggiavo, dopo
aver fatto questo bellissimo incontro.
Piena di entusiasmo per l’incontro con Muhammed, mi sento chiamare ancora. Stavolta è un indiano di una cinquantina d’anni con barba e turbante che mi dice qualcosa che faccio fatica a capire. Dopo diversi tentativi, credo mi abbia detto queste cose:
- Sono una che pensa troppo
- Sono una che parla poco
- Arrivo da 3 anni difficili
- Fra due mesi mi capiterà una grande fortuna
E mi consegna una perlina bianca (curiosità: in Oriente i
doni vanno ricevuti con entrambe le mani). Nel momento in cui mi consegna la
perlina, capisco l’antifona: “Non vorrei offenderla, ma vuole un’offerta?”
“Solo quello che ti senti.” Caccio la mano in tasca, ho 2 dollari. “Eh, dai,
almeno 10 dollari!” Capito il santone? Io non mi lascio turlupinare
ulteriormente e quello si intasca i 2 dollari (e secondo me mi ha tirato una
gufata che non finisce più. Vi faccio sapere fra due mesi).
Ma insomma, quanti incontri! E finalmente arrivo a Little
India. Inizialmente non mi dice granché, solo una serie di condomini e strade
un po’ desolate. Ma a forza di girare, capisco che l’avevo presa dalla parte
sbagliata: nella via principale del quartiere c’è una sarabanda di botteghe,
negozi, ristoranti con infiniti, coloratissimi articoli. Vi ho mai detto che
penso che i costumi delle donne indiane siano stupendi? E li portano così bene,
loro! Io farei ridere, eh… In tutto ciò, è pomeriggio inoltrato e non ho
mangiato praticamente nulla. È l’occasione giusta per prendere una noce di
cocco da passeggio. Una cosa grande come un pallone da calcio regolamentare,
pesante come una boccia da bowling e contenente un litro e mezzo di latte di
cocco. Eccola qui, la mia noce di cocco. L’ho chiamata Wilson.
Insieme, passeggiamo per le strade del quartiere, facciamo le foto, ci scambiamo opinioni sul percorso da effettuare, ci riposiamo sedute a un marciapiede. È in quel momento che, miracolosamente (avendo beccato una rete wi-fi a sbafo), ricevo un messaggio da Cecilia. Cecilia è una ragazza italiana che vive qui da qualche mese, amica della mia amica Irene. Quando Irene ha saputo della mia tappa a Singapore, mi ha subito parlato di lei, e quindi l’ho contattata per cercare di beccarci. Come con Mary, è sempre bello incontrare qualcuno che ti accolga in un posto nuovo, no?
Insieme, passeggiamo per le strade del quartiere, facciamo le foto, ci scambiamo opinioni sul percorso da effettuare, ci riposiamo sedute a un marciapiede. È in quel momento che, miracolosamente (avendo beccato una rete wi-fi a sbafo), ricevo un messaggio da Cecilia. Cecilia è una ragazza italiana che vive qui da qualche mese, amica della mia amica Irene. Quando Irene ha saputo della mia tappa a Singapore, mi ha subito parlato di lei, e quindi l’ho contattata per cercare di beccarci. Come con Mary, è sempre bello incontrare qualcuno che ti accolga in un posto nuovo, no?
Dicevo, il messaggio di Cecilia, che mi invita a
raggiungerla in Arab Street intorno alle 17. La buona notizia è che sono a uno
sputo dai quartieri arabi, che erano anche in programma. La cattiva notizia è
che sono le 17.30. Fuck. Mi separo dolorosamente da Wilson e inizio a dirigermi
a velocità sostenuta verso Arab Street, ma prima invio un nuovo messaggio
chiedendo un punto di riferimento più preciso. I quartieri arabi sono davvero
vicini, in 10 minuti sono lì. Ma c’è un nuovo problema: non riesco in nessun
modo a mettermi in contatto con Cecilia. Non riesco a chiamarla, non riesco a
mandare sms, non riesco a intercettare nessuna connessione di straforo. Inizio
a percorrere le vie della zona su e giù, pensando più che altro alla colossale
figura di merda che sto facendo con questa persona che è così gentile da
dedicarmi parte del suo tempo, oltretutto pure con il fidanzato in visita.
Arrivo a un incrocio e penso che se riesco a ossigenare il cervello quel tanto che basta, magari troverò una soluzione. Mi siedo a una panchina di fronte a una coppia di occidentali. Dopo 30 secondi mi sento chiamare: “Ilaria?” “Cecilia???” Carramba!! Cioè, capito? Li ho beccati praticamente per caso!!! Forse il santone aveva ragione, e la fortuna è iniziata anche prima del previsto.
Arrivo a un incrocio e penso che se riesco a ossigenare il cervello quel tanto che basta, magari troverò una soluzione. Mi siedo a una panchina di fronte a una coppia di occidentali. Dopo 30 secondi mi sento chiamare: “Ilaria?” “Cecilia???” Carramba!! Cioè, capito? Li ho beccati praticamente per caso!!! Forse il santone aveva ragione, e la fortuna è iniziata anche prima del previsto.
Siamo ormai in orario aperitivo, e ci sediamo a un tavolino di un locale del quartiere a berci una birra locale. Ci raccontiamo vicendevolmente di quello che facevamo in Italia e come siamo finite a Singapore, ma poi parliamo anche di libri e cinema, viaggi e studi universitari… Insomma, chiacchieriamo del più e del meno e trascorriamo un paio d’ore veramente piacevoli. Intorno alle 8, Cecilia e Matteo mi salutano perché devono recarsi a un appuntamento, e io decido che per oggi ne ho avuto abbastanza di girare e posso anche andare a casa. Ancora non posso credere al culo che ho avuto: credo che in una sola giornata sia stato anche troppo, meglio non sfidare la sorte.
Prima di lasciarvi, ecco i nomi dei fortunati vincitori che hanno indovinato la citazione cinematografica: Davide, Edo eWeaver-Ant, che ci fornisce anche il link.
Ciao!
Va bene, ma cos'abbiamo vinto? :P
RispondiEliminaBellissimo post, come sempre. Fa quasi girare la testa, con questo turbinio di colori, odori, luoghi, culture e persone!
Miiiii che giornata!!non avevo capito che il Santone avesse una tariffa fissa...cmq "Aglio, fravaglio, fattura ca nun quaglio,
RispondiEliminacorna, bicorna, capa r’alice e capa r’aglio" sput sput sput
corna corna corna!
Ahahah bella Debra, la formula contro il malocchio!
Eliminaper proteggerti divento anche superstiziosa hai visto? ^_=
EliminaCiaoooo, Wilson, dove l'hai lasciato? mica l'avrai abbandonato eh?
RispondiEliminaHai fatto bene ad infilarti le scarpe in borsa!! Ad Istanbul io le ho lasciate fuori e quando sono uscita ho dovuto rovistare 1 oraaaaa nella montagna di scarpe puzzose per ritrovarleee... bleah!
In giappone in alcuni templi a Kamakura (sia buddhisti che shintoisti) consigliavano di portarsele dietro perché se no le rubavano (e infatti quasi nessuno le lasciava all'ingresso). Che mondo!
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