martedì 19 febbraio 2013

A grandi salti verso Kangaroo Island



In teoria il programma prevede un’intera giornata a Port Augusta e questo comporta il fatto che la sveglia per Ilaria sia fissata tardi, dove tardi è da intendersi con le ore 8. Mi immagino le maledizioni quando apro la porta del camper per avvisarla che è ora di svegliarsi (io, naturalmente, sono in piedi almeno dalle 6).

Dal momento che vogliamo prendercela comoda, la prima tappa è la biblioteca cittadina, dove si naviga un po’ su Internet: poco però, perché c’è il limite dei 50 MB, così non riesco neppure a caricare qualche fotografia. Quando ci decidiamo a muovere qualche passo per la cittadina, ormai è quasi mezzogiorno.

Veduta omnicomprensiva di Port Augusta

Port Augusta si rivela carina, pulita, con delle belle casette, tanti parchetti e soprattutto il mare, che non fa mai male. Approfittando di una mappa super-dettagliata mi improvviso guida turistica e conduco Ilaria nella carrellata degli edifici storici della città. Che, per inciso, comprendono anche la macelleria, il cui ingresso è sovrastato dalla testa di un toro macellato nel 1927. Provano a venderci dei materassi per strada, facciamo un po’ di palestra all’aperto e seguiamo una coppietta aborigena fan degli AC/DC. E questo è quanto, alle 14 scarse ci troviamo ad aver esaurito qualsiasi cosa si possa fare da queste parti, per cui prendiamo la decisione di iniziare il viaggio verso Adelaide, in modo da avere una tappa più corta il giorno seguente.

L’idea sarebbe quella di procedere lungo la costa, ma ben presto Ilaria chiude gli occhi sul sedile del passeggero. Quindi decido di prendere la strada interna, allontanandomi dalla costa, e inizio ad accarezzare l’idea di puntare direttamente verso l’imbarco per Kangaroo Island, 450 km più a sud.

Ma non ho capito, approfitti dei miei momenti di assenza per stravolgere i programmi di viaggio?

Quando la mia navigatrice si sveglia, siamo già a un centinaio di km da Adelaide e procediamo spediti, quindi decidiamo di prenotare il traghetto per l’isola. E qui inizia l’avventura, perché la linea cade, ricade, riricade, ririricade. Jacintha, la tizia del servizio clienti, diventa in pochi minuti la donna alla quale ho fatto più telefonate in tutta la mia vita. E, by the way, alla fine mi hanno fatto due prenotazioni, una a nome di Davide Solditi e Rlaia Sufè. No, dico: Rlaia Sufè.

Potrei riempirci un elenco del telefono con tutte le nuove versioni del mio nome. Ma questa le batte tutte.

Attraversiamo Adelaide nell’ora di punta, senza mai perderci una sola volta. Dovremmo provare a fare qualche rally, andremmo alla grande! E subito dopo il panorama si trasforma e pare di stare in Italia, fra vigneti, dolci colline, fattorie e cavalli. Poi però dai prati spuntano le testoline dei canguri, a decine, ovunque, e capisci che sei ancora in Australia. Ci troviamo nella penisola di Fleurie, in un paesaggio davvero stupendo, mentre la distanza da Cape Jervis e dal traghetto si accorcia. Visto che l’imbarco è la mattina seguente, però, decido di buttarmi in una stradina laterale verso Rapid Bay, per passare la notte da qualche parte vicino al mare.

E faccio centro, perché finiamo in un campground dove parcheggio a una decina di metri dall’oceano (e a oltre cento metri dai bagni, con grande disappunto di Ilaria). Arriva subito un vecchietto a riscuotere i 12 dollari per la nottata e poi ci chiudiamo dentro: fa freddo, tira vento e piove. Però soffritto, pasta al sugo e poi qualche bicchiere di goon fanno in modo che all’intero del camperino si stia molto bene, fino alla conclusione della serata. Povero Dottor Horrible...

E voglio aggiungere: niente docce né elettricità. Poveri noi…

Ma devo ammettere che tutto ciò ha un suo fascino

E che spettacolo la mattina seguente! Tiro la tenda e guardo direttamente le onde, esco e posso camminare sulla spiaggia deserta, quando ancora sta sorgendo il sole. Una di quelle cose che non ti dimentichi più, insomma. Un po’ come tutta questa vacanza.

Un paio d’ore dopo, alle 10, siamo pronti a salpare le ancore: pronti via e si balla, le onde sono molto alte e mi vedo costretto a rinunciare al proposito di restare all’aperto, aggrappato alle balaustre come un lupo di mare, visto che il vento minaccia di sollevarmi di peso. Insomma: poltrona in prima fila e si guarda il mare per 45 minuti dal finestrone della nave.

Siamo così a Kangaroo Island, l’ultima grande tappa del mio tour australiano. Appena si sbarca si parte filati per la prima destinazione, Seal Bay, ché non c’è tempo da perdere – questi ultimi giorni stanno scivolando sempre più nel turboturismo! Per fortuna le distanze su Kangaroo Island sono piuttosto brevi, così non ci vuole molto e il trasferimento scorre via senza nulla da segnalare se non un serpente probabilmente finito sotto la macchina (che dire... sembrava un bastone, se ne stava lì dritto senza muoversi, ‘sto pirla). A proposito di incidenti, ma gli australiani non potrebbero spostare le carcasse degli animali che tirano sotto? Almeno quelle di peso superiore ai 30 kg che restano in mezzo alla strada, su... sembra di guidare nel mezzo di un cimitero di creature pelose!

Iniziamo con un lungo giro sul boardwalk che sovrasta la costa, alta, spoglia e battuta da un vento freddo: a entrambi sembra di essere tornati indietro di tre anni e di trovarci a camminare sul margine delle scogliere del Donegal, nella lontana Irlanda. Sotto di noi, in lontananza, vediamo i primi leoni marini e lo scheletro di una megattera che è venuta qui a morire. Poi rientriamo al centro visitatori, dove l’addetta alla biglietteria è un’asiatica australiana che 20 anni fa ha vissuto a Cerchiate di Pero (posto che esista un posto dal nome simile) e parla ancora molto bene la nostra lingua. Della serie, piccolo il mondo, eh! Sborsiamo il dovuto e ci spostiamo sulla spiaggia in compagnia della nostra guida, Don, un simpatico signore sulla sessantina (che sembra essere alticcio), di poche altre persone e di un sacco di leoni marini, animali teneroni e pigri. A loro difesa, voglio specificare che trascorrono tre giorni a caccia in mare aperto, senza mai dormire, prima di tornare a spiaggiarsi per altrettanti giorni – diciamo che la loro pigrizia è più che giustificata, insomma! 

Uno degli esemplari più vispi

Fra cuccioletti pacioccosi, femmine aggraziate, maschi immaturi e ciccioni dominanti (devono mettere su grasso: quando arriva il momento di lottare per l’accoppiamento non mangiano per sei settimane. E la femmina “ci sta” per una sola giornata. Ogni anno e mezzo. Scusate, lo ripeto: un giorno ogni anno e mezzo.) trascorriamo un’oretta veramente piacevole, prima di spostarci al Little Sahara, vale a dire quattro grosse dune di sabbia capitate chissà come nel mezzo del bush dell’isola, tutte da scalare mentre attorno a noi sfrecciano i sandboarder. Il vento solleva un sacco di sabbia, che sicuramente ritroveremo ovunque nel corso delle prossime 3-4 settimane.

Dall'Irlanda al Sahara!

Dopo questa passeggiata scalzi fra le dune procediamo ancora, fino a raggiungere le Kelly Caves, dove riusciamo a prenotare l’ultima visita della giornata. Facciamo un giretto e poi aspettiamo all’ingresso delle grotte, per renderci conto che il gruppo è costituito soltanto da me e da Ilaria e che la nostra guida sarà il simpatico nerd che ci aveva staccato i biglietti un’oretta prima. Si apre la porta, si scende una scala dalla pendenza improbabile e ci si tuffa nelle viscere della terra.
Sinceramente in vita mia ho visto grotte molto più grandi e belle di queste. Anzi, credo che queste siano le grotte più miserine che io abbia mai visitato: ma è stata senza ombra di dubbio una delle visite più interessanti! Siamo solo in due e la nostra guida dopo un iniziale imbarazzo (è pur sempre un nerd) e alcune improbabili pose esplicative inizia a sciogliersi e a raccontarci tutti i segreti delle sue caverne. In quaranta minuti ci parla della loro storia, di turisti smarriti, di ragni sfigati che entrano credendo di trovare chissà che e finiscono per morire di fame. Poi spegne tutte le luci tranne una piccolissima candela e ci fa vedere come si esplorava ai tempi dei primi visitatori (un ambiente molto romantico, ma scommetto che loro non ci badavano), poi spegne anche la candela per farci capire cosa si prova quando ci si perde e tutte le fonti di luce si esauriscono. Credo che potrei impazzire nel giro di 30 secondi in quel buio totale!

Ma dobbiamo scendere là sotto?
 
Molto interessante davvero, ma ormai sono le 5, la sua giornata lavorativa è finita e, in un certo senso, è finita anche la nostra. Niente più visite per oggi, si punta in direzione di Kingscote, la “capitale” dell’isola. Ilaria recupera le fatiche delle visite dormendo lungo il tragitto e in un’oretta circa raggiungiamo il campeggio dal quale sto scrivendo in questo istante.

Chi non mi conosce deve pensare che io sia affetta da narcolessia.



La serata si conclude con salsicce di dubbia qualità, ancora tanto vino rosso, un po' di risate e parecchia stanchezza, al punto che finiamo per spegnere presto la luce.
Buonanotte!

Però abbiamo camminato tanto, oggi...

522 km
 Km totali percorsi: 27.870. E abbiamo pure preso il traghetto.

martedì 12 febbraio 2013

Di canyon, mici e frutti proibiti



La giornata al King’s Canyon parte bene: cielo sereno, temperatura piacevole, un po’ di tempo speso scrivendo un post. Penso di condire il tutto con una passeggiatina, giro attorno al camper e mi accorgo che, dai e dai, parlare male degli aborigeni ha fatto arrabbiare il Serpente Arcobaleno, una delle loro divinità più cattive. Da vero dio vendicativo, il signor Serpente nella notte è strisciato fino al nostro camper e... ci ha bucato una gomma! Ma porc...

Così, mentre Ilaria dorme il sonno delle giuste, io mi cimento nel cambio dello pneumatico, che comprende lo scavare una buca sotto la gomma perché il cric non riesce a sollevare abbastanza tutto l’ambaradan.

Si sta di nuovo insinuando qualcosa sul mio peso? Comunque, in tutto ciò io avverto fra sonno e veglia che il camper ondeggia in maniera bizzarra. Indecisa se si tratta di un sogno o se è Davide che mi sta facendo uno scherzo, decido di ignorare la cosa con tutte le mie forze. E, quando mi alzo, c’è la gomma nuova!

Finisco giusto in tempo per la colazione, quindi per fortuna non abbiamo perso tempo, ma sembro un minatore appena sbucato dalle miniere del Sulcis, per cui come prima cosa si impone una doccia.
Salutata senza troppi rimpianti (e qualche vaffa) la King’s Creek Station procediamo verso nord per gli ultimi chilometri che ci separano dalla meta odierna. L’ambiente è ancora una volta incredibile: per oltre 30 km sulla nostra destra ci segue il margine roccioso di un altopiano che precipita nella pianura sottostante da un centinaio di metri d’altezza. La sera prima, con le rocce rosse rese lucide dalla pioggia, la vista era persino migliore, ma anche così non ci lamentiamo.
Come non ci lamentiamo quando arriviamo al canyon: anzi, facciamo che restiamo a bocca aperta! Ancora una volta ci addentriamo fra alte pareti rocciose, in mezzo a una vegetazione rigogliosa, camminando sul fondo della gola fino al termine del sentiero e scoprendo una pozza d’acqua dove nuotano centinaia di girini e altre creature assortite.

In fondo al King's Canyon, si posa per la foto di rito
Poi decidiamo di cimentarci anche nel tragitto più impegnativo (dopo i Monti Olga e Ayers Rock non ci spaventa niente), vale a dire il giro delle pareti del canyon, che inizia l’ascesa della Scala senza fine del Signore degli Anelli
Una volta giunti in cima iniziamo a camminare fra cupole rocciose fatte a strati, frutto della sedimentazione della sabbia – che strano, altrove le rocce diventano sabbia, qui avviene l’esatto contrario! Ancora una volta ci troviamo estasiati da un panorama diverso da tutti quelli che abbiamo visto finora e capace di lasciarci senza parole.

Pronto a spiccare il volo!
Quando poi il sentiero ti porta sul bordo del canyon, a un passo dal baratro e con una vista che spazia sulla lontana pianura, beh... la bellezza è troppa, non si può descrivere, dovete proprio andarci!
Il giro prosegue, fra infiniti saliscendi, portandoci prima ai Giardini dell’Eden, dove ancora vivono le piante dei tempi in cui l’Australia era un posto umido, e poi sull’altro lato del King’s Canyon, su rocce che non sono semplicemente a strapiombo: si protendono nel vuoto, sfidando la legge di gravità.

Saranno le fatiche dei due giorni precedenti, saranno i dislivelli, sarà il sole che oggi sembra particolarmente caldo, sarà l’acqua che qui fa veramente schifo, insomma ci stanchiamo parecchio e non vediamo l’ora di tornare al punto di partenza. Certo che il King’s Canyon è davvero un luogo straordinario: anche questo a parere mio e, credo, di Ilaria, riesce a superare in bellezza Ayers Rock.

Confermo.

Salutiamo con un certo dispiacere i suoi strapiombi e ci dirigiamo al resort che si trova lì a pochi chilometri: oggi niente panini al formaggio, cetrioli e carote, oggi vogliamo mettere nello stomaco qualcosa di sostanzioso! E cosa può esserci di meglio di un gustoso hamburger di cammello? Bene, dopo il coccodrillo e lo squalo abbiamo assaggiato anche questo, ora non mi resta che provare il canguro!

Incredibile: hanno infilato un cammello qui dentro!
Il tempo stringe (il limone pure N.d.R.): mentre si scatena il solito acquazzone pomeridiano facciamo una sosta dal gommista locale, che sistema la gomma bucata (viaggiare senza ruota di scorta da queste parti è poco raccomandabile) e poi via verso la Erldunda Station, dove torniamo di nuovo sulla Stuart Highway, pronti a svoltare verso sud in direzione del South Australia. Ma non oggi: la giornata lascia solo il tempo dell’ennesima piscina e di una buona cena con pasta allo zafferanno, mentre due simpatici micioni ci fanno compagnia. Miao!

La mattina seguente il micio fa colazione con noi, ma non possiamo perdere troppo tempo perché ci aspettano 1.200 km da percorrere in due giornate, per cui fatti armi e bagagli si parte e, dopo un centinaio di chilometri, si abbandona il Northern Territory per entrare nel South Australia.

Attraversi la strada e cambi fuso orario. Roba da matti.

Benvenuti!
Vicino al confine ci sono un sacco di cartelli che ci avvisano che, qualora venissimo sorpresi a importare frutta o simile dal nord, verremmo giustiziati con un colpo alla nuca al margine della strada. Visto che ne abbiamo parecchia, di frutta, decidiamo di mangiarla tutta – disponendola bene in vista sul cruscotto nel procedimento.

A ogni modo, stiamo entrando nella parte più desolata del viaggio, quella attraverso il vero “nulla”. Già la roadhouse di Marla ci sembra ai limiti delle possibilità di sopravvivenza umane, ma più si procede verso sud più l’ambiente va facendosi brullo e le querce del deserto che punteggiavano l’area di Ayers Rock lasciano il posto a... beh, a niente, a dire il vero.
Ma è solo quando, in serata, raggiungiamo Coober Pedy che ci rendiamo conto di aver definitivamente lasciato il pianeta Terra. Questo paesino multietnico (ci vivono persone di 44 nazionalità diverse) è il centro mondiale dell’estrazione degli opali, visto che da qui proviene il 90% di queste pietre, ed è anche un posto dove fa molto caldo, dove la gente vive sottoterra, dove il primo albero mai visto è stato realizzato con scarti metallici. Un posto unico, insomma, che io e Ilaria esploriamo a piedi, passando davanti al club dei minatori italo-australiani e al Big Winch, un grosso argano di cui qui vanno giustamente (???) fieri.

E si tratta pure di una copia! L'originale è andato distrutto... meno male che l'hanno ricostruito, eh.

Come se non bastasse tutto questo a renderlo un posto bizzarro, un matto ha pensato bene di aprire un museo a cielo aperto con le sue eccentriche opere d’arte. Uno scenario post-apocalittico nevvero.

Anche il campeggio che troviamo per la sera è particolare: ricavato in una vecchia miniera di opali è isolato, ventoso e spettacolare. Potremmo anche scendere a dormire sottoterra, ma dato che per andare sottoterra c’è sempre tempo, decidiamo di rimanere in superficie. Trovata la sistemazione per la notte, torniamo in città, per cenare al raffinato ristorante Umberto, dove un cliente scassamaroni tira un pippone di 20 minuti a un cuoco derelitto per un piatto venuto male. Quando torniamo al camping è ormai notte inoltrata e sopra di noi, in un cielo nero, brillano miliardi e miliardi di stelle – e passa pure un satellite. Emozioneee!

E non menzioni che hai anche assaggiato il canguro?

E poi, durante la notte: freddoooo! Dopo non aver dormito per il caldo, ecco che mi sveglio per il gelo del deserto – per fortuna riesco ad afferrare a tentoni uno dei sacchi a pelo che non avrei mai creduto di dover usare e mi riaddormento subito.
Il mattino dopo ci svegliamo infreddoliti – tanto che quando faccio la doccia apro addirittura il rubinetto dell’acqua calda! – e ce la prendiamo comoda prima di comprare un po’ di opali (mi arresteranno in frontiera, lo so) e di tornare a Coober Pedy per un ultimo saluto e soprattutto per vedere i set cinematografici abbandonati (qui hanno girato Mad Max III, Priscilla la Regina del Deserto, Pitch Black, Fino alla Fine del Mondo e molti altri) e fare spesa. Così sono quasi le 11 quando salutiamo la cittadina, che per ora vince la palma di posto più strano che io abbia mai visto.

Che modo di parcheggiare!
In teoria ci aspettano 540 chilometri di nulla fino a Port Augusta, dove finalmente rivedremo il mare! Invece questo nulla si riempie di tanti tipi di nulla diversi, che ci affascinano mentre chiacchieriamo del telefilm più bello delmondo, di cinema e di aborigeni sfaccendati. Le miniere di opali lasciano il posto a territori sconfinati, con l’orizzonte che si perde in ogni direzione. Gli alberi appaiono a tratti e per decine di chilometri viaggiamo in regioni dove crescono soltanto pochi ciuffi d’erba.

Nel pomeriggio, quando la meta si avvicina, le cose si fanno ancora più interessanti. Prima compare uno spettacolare lago salato, che io e Ilaria raggiungiamo a piedi, trovando un bel cartello che avvisa di non raccogliere nulla da terra perché potrebbero essere ordigni inesplosi (tutta l’area fa parte di un poligono militare). Poi arriviamo a Woomera, la base operativa da dove negli anni ’50 si gestivano i test atomici e missilistici che gli inglesi conducevano nel deserto lì vicino. La città, che è ancora una struttura militare operativa, mette i brividi tanto è vuota e bizzarra, così ci affrettiamo a visitare il suo museo all’aperto, pieno di missili, aerei e armi varie, e poi riprendiamo la strada verso sud.

Il progetto con cui Swaggirl ha vinto la Fiera della Scienza locale

A questo punto mi sembrava di essere in un episodio di, che so, Fringe, o X-Files. Mi aspettavo una comunità di polidattili, microcefali, gente che si scopa le proprie sorelle. Invece proprio il nulla assoluto. Una città fantasma.




In mezzo a panorami sempre mozzafiato, la Stuart Highway scende lentamente ma costantemente verso il mare e Port Augusta, dove arriviamo quando sono le sette di sera passate – grazie all’ora legale, entrata in vigore il 1 dicembre, il sole è però ancora alto e possiamo goderci un buon barbecue ristoratore. Niente piscina però, che fa freddo pure qui!

Ce lo dico da soli: quanta strada, quante cose... bravi!

1.278 km
 Km totali: 27.348. E siamo quasi arrivati!

martedì 5 febbraio 2013

It's a big rock



Dato che non può piovere per sempre, il mattino seguente ci accoglie con un cielo per lo più sereno, ma con il solito temporale in lontananza. Nel deserto i temporali si vedono a decine di chilometri di distanza, puoi scorgere le colonne d’acqua, capire come si spostano… insomma, è una bella cosa.

Bellissima! Io non avevo idea di come fossero i temporali a vederli da fuori…


A ogni modo, la mattinata prevede la scalata ad Ayers Rock, per cui abbiamo puntato la sveglia alle 5:30 e ci siamo diretti velocemente verso il sassone, che ci saluta attorniato da una folta comitiva di giapponesi, da qualche raggio di sole e da un cartello che annuncia che non si può salire perché si prevede pioggia.

Ora, in questo particolare caso è vero che pioverà e quindi hanno fatto bene a chiudere, ma in generale da queste parti cercano sempre di impedire alla gente di salirci e gli Anangu (gli aborigeni di questa regione) ti chiedono di evitare la scalata. Per rispetto. Ora, avessimo visto un aborigeno uno al lavoro nei parchi o impegnato in qualche forma di attività legata alla salvaguardia del territorio… Ma andiamo avanti.

Visto che su Ayers Rock non si sale e che è ancora molto presto, siamo costretti a cambiare programma su due piedi e decidiamo di visitare i Monti Olga, dove le escursioni dovrebbero essere aperte fino alle 11 del mattino, quando il caldo diventa troppo intenso. I cinquanta chilometri di strada che percorriamo vedono apparire lentamente questa spettacolare formazione di cime arrotondate – probabilmente chiamata così in onore di qualche formosa signorina dei tempi che furono – che arrivano a toccare i 550 metri (Ayers Rock si ferma a circa 348).

I Monti Olga rullano!

Zaino in spalla (non per vantarmi, ma sono fra i pochi escursionisti davvero preparati, dagli scarponcini allo zaino con k-way, kit di pronto soccorso, coltellino svizzero, cibarie e accessori vari) e via, in mezzo a un sentiero sassoso che costeggia queste enormi pareti che si innalzano prima scoscese per poi diventare più dolci in prossimità delle vette.

Una considerazione: Hayao Miyazaki dovrebbe fare causa all’Australia per plagio. A parte che ci sono insetti simili ai mostrotarli di Nausicaa, ci sono tantissimi elementi che rimandano all’opera del Maestro. L’osso di mucca che ho preso come souvenir è quasi identico all’Ala da guerra, queste enormi montagne ricordano da vicino le navi volanti di Conan, le cupole rocciose viste altrove sono identiche alle città di Dork e Tolmekia, e ci sono persino libellule uguali a quelle enormi che solcano i cieli dei mondi di Hayao. Cioè, più piccole, per fortuna. Ora, visto che è impossibile che il Maestro abbia copiato, è ovvio che è stata l’Australia a farlo.

Io vorrei tanto incontrare Totoro e il Castello errante!


Persi in questi discorsi di un certo spessore arranchiamo alle pendici dei monti, fino a quando il sentiero non svolta e inizia ad addentrarsi fra queste enormi muraglie, salendo verso una specie di valico. Siccome sappiamo rovinare tutto (il nostro karma diventa ogni giorno più sporco) riusciamo a vedere una splendida trollface scavata nella roccia.


La vedete?

Durante la salita arriviamo vicini al punto in cui l’acqua che bevi non basta a compensare quella che perdi con la sudorazione, ma per nostra fortuna la cima è vicina e possiamo guardarci attorno. Che posto! Personalmente, altro che Ayers Rock, questo sì che è spettacolare. E guardando in lontananza, verso ovest, dove dopo 2.500 km di niente si trovano Perth e l’Oceano Indiano, si vedono altri enormi monoliti all’orizzonte. Insomma, Ayers Rock è famoso perché è il primo che incontri, mi sa, non il più bello. De gustibus, naturalmente.

E perché è un’unica, grossa roccia, a differenza degli Olga. In ogni caso, Monti Olga tutta la vita!


Scendiamo e risaliamo e sostiamo e risostiamo e chiacchieriamo seduti all’ombra, per quasi cinque ore i Monti Olga ci ospitano da bravi padroni di casa. Camminiamo per sette chilometri, fino a riguadagnare il camper e soprattutto l’agognata aria condizionata.
Prima di tornare al resort però rimane ancora una gola da visitare, dopo il necessario rifornimento di cibo. Così di nuovo gambe in spalla e via verso un altro posto magico (che si chiama Valle del Vento!!! Visto? L’Australia ha copiato!!!).

La gola si addentra per circa un chilometro fra le due montagne più alte dei Monti Olga, così ci troviamo a camminare in mezzo a pareti a strapiombo rosse, percorse da venature nere, con l’ombra delle nuvole di passaggio a cambiare continuamente il panorama. C’è pure l’eco più netta che io abbia mai sentito in vita mia, e c’è pure una bambina con la faccia rossa come un’aragosta: colpo di sole garantito, roba da togliere la patria potestà ai genitori.

Da queste parti in effetti è pieno di cartelli che mettono in guardia sui cento pericoli della zona: sole, caldo, animali... Francamente basta usare un minimo di prudenza e non ci sono rischi. Le camminate non sono eccessivamente impegnative per chiunque sappia muovere un po’ i piedi, e il caldo si sopporta con l’ausilio di un buon cappello e tanta acqua. Certo che poi vedi in giro sessantenni americani sovrappeso con le ciabattine e una bottiglietta da mezzo litro (quando in un giro di 3-4 ore di litri se ne bevono circa 4) e capisci perché c’è gente che sta male. Come quelli con la bambina di cui sopra, insomma.

Allora vedi che gli aborigeni fanno bene a preoccuparsi? È gente che conosce i suoi polli!


Ridendo e scherzando siamo arrivati in fondo alla gola e siamo pure tornati al camper, per cui decidiamo di concederci un pomeriggio di meritatissimo riposo al resort. Prima però facciamo un giretto al supermercato, dove nonostante la guida dicesse di prepararsi ai prezzi folli, abbiamo trovato tutto abbastanza a buon mercato, e poi finiamo a mollo in piscina per un paio d’ore – che goduria – fino a quando le dita delle mani hanno minacciato di staccarsi.

Degna conclusione della giornata: la visita ad Ayers Rock al tramonto, uno spettacolo indimenticabile grazie anche a un arcobaleno giusto sopra la montagna, a nuvole dai cento colori illuminate dagli ultimi raggi del sole e alla luna piena che sorgeva in lontananza sul deserto. Non avrei potuto desiderare di essere in un altro luogo sulla faccia della Terra!

Ma una foto di sto sasso non ce la vogliamo mettere?

Ma le cose belle, si sa, finiscono. Per fortuna quando sei in vacanza lasciano il posto ad altre cose belle! Il mattino seguente, infatti, decidiamo di riprovarci con la scalata. Una sveglia un po’ meno baldanzosa ci permette comunque di essere sul posto verso le 7:30 (la salita viene chiusa alle 8), ma niente da fare: quest’oggi pare che il capo degli Anangu abbia dormito male e per questo hanno deciso di sbarrare la via con una banale scusa: il cartello oggi dice “Eh, ci saranno più di 38 °C”.

Ma noi ce ne sbattiamo!

Dato che ce l’aspettavamo (ormai sappiamo con chi abbiamo a che fare) avevamo già preparato il piano B: periplo della grande roccia a piedi, lungo un tragitto di circa 11 chilometri. Ora, la roccia è grande, bravi, è bella, sì, ma è una sola e non riesce a conquistarti come i Monti Olga. La ammiriamo sempre sulla nostra destra, camminiamo e parlottiamo per circa tre ore, scoprendo fra l’altro che se tu rispettassi i divieti di fotografare richiesti dagli aborigeni in pratica Ayers Rock non la potresti quasi riprendere e che da queste parti ballavano il Tuca Tuca per invocare la pioggia (per un loro difetto di pronuncia diventava Kuka Kuka, ma quello era, indossavano pure le parrucche per essere uguali alla Carrà).

Completiamo così il giro e torniamo al punto di partenza, per salutare definitivamente Ayers Rock. Che dire, sarà che io e Ilaria siamo persone grezze e non siamo riusciti a cogliere la spiritualità di questo luogo, ma per quanto lo abbia trovato meraviglioso non è stata quell’esperienza mistica descrittaci dagli amici che l’hanno visitato. Di queste migliaia di chilometri australiani altri ricordi resteranno molto più vividi dentro di me.

Siamo sicuramente due persone grezze. E ci piace anche la Carrà.


Prima di partire, ci affrettiamo a fare un giro alla Camel Farm del resort per vedere finalmente questi strambi animali e a fermarci dal meccanico locale per sistemare la pressione delle gomme, dato che alla stazione di servizio il self service è guasto (“Da più di un mese”, ci fa notare lo sconsolato meccanico). E poi via, iniziamo a macinare i 300 km che ci separano dal King’s Canyon, situato a nord-est fra Ayers Rock e Alice Springs, grossomodo.

Lo sapevate che l’Australia è l’unico paese al mondo dove si trovano i cammelli allo stato brado? Naturalmente importati da fuori ai tempi della costruzione della ferrovia, quindi liberati nel deserto. Ci sono pure le corse di cammelli! Ci sono pure gli hamburger di cammello! A me parevano più dromedari, comunque…

Secondo voi di che si tratta?

Prima di arrivarci finiamo dritti dritti nel mezzo di una tempesta e poi riusciamo a prenderci una bella fregatura. Consultando la guida: “Hai visto, Davide? Questo camping è a 35 km da King’s Canyon, ma costa solo 17 dollari! È un campeggio-avventura!” “Perfetto, allora ci fermiamo lì!
L’avventura ci sta tutta, anche troppo, ma il prezzo, salito a 21 dollari fra l’altro, è a persona. Ci siamo rimasti davvero male, ecco.

Per non dire che si tratta del campeggio più sfigato, squallido e sporco in cui ci sia capitato di soggiornare. Bazzicano personaggi poco raccomandabili. La faccia più amichevole è quella del cane. Per me qui si scopano le loro sorelle.

Fra l’altro i tizi del campeggio ci cacciano nella piazzola più sfigata e dopo 10 minuti ricomincia a diluviare, allagando tutto. Me ne sto al finestrino con una faccia che deve sembrare da condannato a morte, tanto che un tizio che passa lì vicino mi nota e ci propone di spostarci in un posto più riparato, cosa che accettiamo più che volentieri. 


E così siamo pronti per la serata, con una cena molto veloce a base di cous cous  in busta e un film dello Studio Ghibli a chiudere. Non è il Maestro, ma si lascia sempre vedere.

Potrebbe esser peggio. Potrebbe essere Serghei M. Einstein. 

E anche oggi concludiamo con una citazione cinematografica
E il nostro solito riepilogo:

Poca strada, solo 450 km!
Km totali: 26.070