martedì 27 novembre 2012

Due settimane di pausa

A volte mi rendo conto di essere invecchiata per alcuni comportamenti che fino a pochi anni fa non avrei mai contemplato. Per esempio, tornare sui miei passi, ritrovare luoghi già visitati e cambiare i miei piani repentinamente. E invece adesso, alla fine di queste due settimane di viaggio, mi sposto di nuovo verso sud con Shane, che mi lascia a Bundaberg prima di tornare al lavoro. Raccogliamo le idee: cosa fare ora? Trovare un'altra farm dove fare WWOOFing? Ripercorrere la strada verso nord, fermandomi in altri posti? Ho pur sempre il biglietto dell’autobus per Cairns. Cercare un lavoro vero e proprio, per quanto casual, che mi permetta di integrare le finanze? 


La risposta arriva dalla vetrina di un fast-food, resort di Bargara cerca lavoratori. Bargara è la spiaggia di Bundaberg. Mi presento, e mi dicono che in cambio di vitto, alloggio e l’uso delle strutture del resort chiedono 4 ore di lavoro giornaliere. La spiaggia con le bellissime rocce vulcaniche è a 3,4 minuti di cammino. Sai cosa? Affare fatto! Mi presento con tutte le mie valigie, mi danno la chiave del bungalow, la maglietta del team, e domani comincio! L’appartamento è in condivisione con tre backpacker francesi, Claire, Florent e Jessica, che sono arrivati solo ieri dopo essere scappati da una farm dove raccoglievano pomodori. Il resort è immerso nel verde, e si registrano già numerosi incontri con la fauna locale: rane, goanna e opossum! Un opossum grande come un micione, curioso e socievole, che passa da un ramo all’altro dondolandosi con la coda per raggiungere le nostre mani tese.


Il lavoro è diviso in tre turni, colazione, cena e giardino, e un enigmatico turno extra. Visto che i tre turni principali sono già occupati dai tre ragazzi francesi, cosa farò io nei primi giorni di lavoro? “Sai cambiare le batterie?” … “…Sì…” “Hai problemi con le scale?” “…No…” “Ecco, prendi la scala e cambia le batterie nelle stanze che ti ho segnato.” “Cambio le batterie a cosa?” “Oh. L’allarme antincendio.” Ho capito, a me è rimasto il lavoro di merda. Molto gentilmente Florent, che è un campione di parkour e non ha problemi ad arrampicarsi, si è offerto di fare cambio di turno, ma prima di rinunciare voglio raccogliere la sfida. Scala sulle spalle, due guanti da mano destra e la piantina con le 25 camere da visitare, quelle libere. Ora non voglio dire che soffro di vertigini, ma devo confessare che ho mentito a proposito della scala. Non sono perfettamente a mio agio lì in cima. Gli allarmi poi non collaborano, attivandosi quando meno me lo aspetto direttamente nel mio orecchio; e la temperatura lì in cima è ridicolmente alta. Questo è il primo giorno di lavoro. Il classico primo giorno alla fine del quale ti domandi se riuscirai ad arrivare alla fine.

Il bello del turno extra è che ogni giorno è una sorpresa. Cosa farò oggi? “Oggi devi potare i rami lungo i sentieri.” Uhm, ok, non può essere peggio degli allarmi antincendio. Dopo la prima ora scopro che da un lato no, non è peggio degli allarmi antincendio. Posso stare al fresco in mezzo alle piante, e con queste cesoie mi sento come Edward Mani di Forbice ed esprimo il mio estro sulle fronde. Il rovescio della medaglia implica però l’esposizione a bestie di ogni forma e dimensione. E con bestie non intendo i lucertoloni stesi a prendere il sole, che mi stanno tutto sommato simpatici  - e appena mi sentono arrivare si affrettano a togliersi dai piedi. Ragni e insetti di vario tipo, ecco cosa intendo. Ogni volta che riesco a individuare un ragnetto (e chissà quanti non ne ho visti), mi domando se si tratta di una specie velenosa, giusto per stare sul sicuro mi allontano nella direzione opposta e trascorro il successivo quarto d’ora a passare in rassegna me medesima, per accertarmi che non ci siano ospiti indesiderati. Finalmente termino il mio compito di giardiniere, torno alla reception per riporre gli attrezzi e mi preparo a staccare, ma manca ancora mezz’ora alla fine del turno: “So io cosa farle fare: c’è da pulire il laghetto.


Chi ha parlato è una strana Vecchia che gironzola per la hall con un cagnetto in braccio. Nei giorni seguenti, incrociando informazioni e intuizioni con gli altri ragazzi, arriviamo a concludere che si tratti della madre di Loni, la proprietaria. Mi mettono in mano una pertica e inizio a dragare il laghetto, o meglio la palude. La Vecchia mi tallona e mi indica i rifiuti: “Guarda, se ti metti in bilico lì, puoi prendere quella cosa rossa laggiù.” Per fortuna dopo un po’ si stufa e se ne va col suo cagnolino. A questo punto, recuperato il recuperabile e senza nessuna voglia di cadere nella fetida acqua, inizio a mettere in pratica una tecnica più efficace per far sparire i rifiuti: li affondo. E arrivo così alla fine del turno.

Il terzo giorno è pressoché uguale al secondo, si torna a potare i rami. A questo punto è chiaro che i proprietari sono inclini al fancazzismo e a corto di buonsenso: nel corso del turno, Pip detto il Marito (notare che nessuno di loro ha mai sentito il bisogno di presentarsi alla forza lavoro) mi dà continuamente indicazioni diverse: pota i rami e strappa le erbacce. Non serve che strappi le erbacce nel mezzo del giardino, fai solo lungo i bordi dei sentieri. Non serve che strappi tutte le erbacce lungo i bordi dei sentieri, strappa solo quelle che si arrampicano sui muri. Lascia stare le erbacce lungo i sentieri, ci penso io col tosaerba. Beh, meglio per me. Ormai padroneggio le cesoie e mi pare ovvio che nessuno verrà a controllare la scrupolosità del mio lavoro: il Marito sparisce col suo tosaerba dall’altra parte del resort, mentre la moglie e presumibilmente la sorella, che presto battezziamo la Stupida (“Sì, ma sembrano tutti stupidi! A chi ti riferisci?” “Alla più stupida!”), passano la mattinata chiacchierando e fumando in veranda. Oggi però a fine turno abbiamo deciso di sfruttare ‘sti benedetti benefit e, dopo un giro in spiaggia, occupiamo piscina e sauna. Un buon modo per finire la giornata.

Avrete capito che il lavoro qui non è dei migliori; per fortuna la compagnia è molto buona. I miei coinquilini sono personaggi in gamba, socievoli e assortiti in maniera bizzarra. Claire e Jessica sono partite insieme dalla Francia solo un mese dopo essersi conosciute e aver scoperto che avevano la stessa destinazione. Florent, il ragazzo di Claire, le ha raggiunte un mese dopo. A Melbourne si sono aggregati ad altri sei connazionali e hanno comprato un furgone, con cui sono miracolosamente arrivati da queste parti. Miracolosamente perché il furgone non è immatricolato, viaggia con una targa finta e con i freni rotti. Anche Florent si è messo alla guida; Florent non ha la patente. Florent ha attraversato le Blue Mountains. Ho visto personalmente quel furgone, ci sono salita e ci ho anche viaggiato. Naturalmente tutti i dettagli che vi ho riportato li ho scoperti dopo. Comunque, i ragazzi hanno trovato lavoro in una fattoria a raccogliere pomodori, ma i miei tre amici sono scappati dopo una settimana date le condizioni assurde, sono finiti nel resort di Bargara, e mi assicurano che qualsiasi lavoro è meglio che raccogliere pomodori. Jessica è metà inglese e parla molto bene, mentre Claire e Florent hanno più difficoltà con la lingua, quindi mi sono ritrovata a usare un po’ del mio francese. Ma abbiamo tutti molta voglia di raggiungerci e conoscerci, quindi le cose in qualche modo funzionano, e la comunicazione faticosa viene ripagata con nuove storie.

Squadra fortissimi!

Florent per esempio mi racconta che ha viaggiato per tutta Europa per praticare il parkour, e Milano gli è piaciuta molto, in particolare la metro di Romolo, che pare essere un ottimo posto per il parkour. Da un lato fa sorridere che una città che conosco bene e che in genere non brilla come polo turistico sia lodata per una stazione metropolitana (dove tra l’altro non sono mai scesa). Questo però è un aspetto perfettamente in linea con la filosofia della disciplina così come me l’ha spiegata lui: chi pratica il parkour, il tracer, cerca di aprire percorsi nuovi e inesplorati nel paesaggio urbano, trova strade che per gli altri non esistono, in competizione con gli altri tracer ma soprattutto con se stessi, per diventare ogni giorno migliori di ieri. Al di là poi di questi aspetti filosofici, il parkour può tornare utile in situazioni delicate: ad Amsterdam si è trovato nel mezzo di una rissa fra spacciatori che se lo contendevano come cliente, e si è messo in salvo scappando su per un muro. “Uhm, questo potrebbe servirmi. Pensi che io possa imparare qualcosa, o sono troppo vecchia?” “Certo che puoi imparare! Ho insegnato anche a persone più grandi!” Buono a sapersi. Per ora non mi ci metto, ma è bello sapere di poterlo fare.

Per il momento però lasciamo queste storie di vita vissuta e torniamo al prosaico mondo del lavoro. Domenica mattina non sanno assolutamente cosa farmi fare, mi fanno bighellonare in giro in attesa di trovare la missione del giorno. Infine la Vecchia si consulta con la Stupida che le dice: “Potrebbe fare le pulizie di primavera…” “Uhm, è un lavoro disgustoso… Ok. Vieni con me.” Prende gli attrezzi di lavoro e ci dirigiamo verso la 15. “Qui c’erano persone molto sporche… Ecco, metti lenzuola e asciugamani da lavare.” “Posso avere i guanti?” “Ma no, non ti servono.” … “Per lavare i vetri, inumidisci il panno con un po’ d’acqua e passi.” “Niente sapone?” “No, noi non crediamo nel sapone. Attira i germi.Non credono nel sapone.Poi fai la polvere, pulisci le imposte, il filtro dell’aria condizionata… Sono solo due stanze, hai tutto il tempo del mondo.” Arrivo alla fine del turno nera nel corpo e nell’anima. Mi ci vuole tutta la giornata per smaltire la rogna, ma è uno sforzo sisifico: il giorno seguente mi presento alla reception, dove la Stagista (l’unica persona qui dentro che sembra percepire uno stipendio sebbene appartenga a un diverso ceppo genetico) mi accoglie con un sorriso: “Come va?” “Eh, insomma… il lavoro di ieri  è stato terribile.” “Oh. Allora non sarai felice di sapere che è lo stesso lavoro di oggi.” *espressione indescrivibile di Ilaria* “Ma la buona notizia è che oggi siete in due! La ragazza alta ti aiuterà. Glielo dici tu?” Vado a chiamare la ragazza alta – Jessica – e cerco di dissimulare il sorriso che dice a mal comune mezzo gaudio. Il lavoro in effetti scorre molto più velocemente, terminiamo con una buona ora di anticipo e, dal momento che ora non riescono a trovare altri lavori di merda per oggi, ci congedano. Prima di andare a pranzo però controlliamo i nuovi turni. Io passo in cucina alla sera, mentre Jessica prende il mio turno extra del mattino.

Il turno serale consiste fondamentalmente in mansioni di lavapiatti. Molto semplice. La cosa più complicata è imparare a usare la lavastoviglie, ma dopo un giro di lavaggio non ho più problemi: la lavastoviglie si rompe. “Dovrai lavare a mano.” Che prospettiva meravigliosa. Lavo, asciugo e metto via. Noterete che manca il passaggio risciacquo. Sulle padelle va spruzzato il famoso olio spray, che ha qualità antiossidanti. La cucina è stretta, Al il cuoco enorme. La seconda cosa più complicata (che, senza lavastoviglie, balza al primo posto come livello di difficoltà) è sgusciare fra i ripiani e le mensole per riporre le stoviglie, ma mi scopro sorprendentemente agile, e anche veloce. Incredibilmente, riesco a star dietro ai ritmi della cucina. Tutto questo mi sarà utile il giorno seguente quando, a partire dalle 17.30, il telefono inizia a squillare e le prenotazioni fioccano senza sosta. Un mercoledì atipico: Loni si mette in cucina ad aiutare il cuoco, io non alzo la testa dall’acqua marcia neanche per un secondo. Come se il lavoro non fosse abbastanza, la Vecchia mi chiede di mettere da parte qualcosa per il cane. Tutto quello che credete di sapere sulle cucine dei ristoranti è vero: il cibo che cade viene prontamente risistemato nei piatti, gli scarafaggi viaggiano paciosi sul pavimento, gli attrezzi vengono frettolosamente sciacquati nell’immonda acqua di fogna che uso per lavare le stoviglie. E la gente fa schifo, mandano indietro interi piatti che finiscono nel sacco dei rifiuti. Non appena gli ultimi clienti lasciano la sala, la Stupida viene in cucina ad aiutarmi. “Posso avere un caffè?” le domando. Lei mi porta un cappuccino “Spero di non averlo fatto troppo forte.” Apprezzo lo sforzo. Pulisco i pavimenti, spegno le luci e mi trascino a casa.

Il giorno seguente le cose vanno decisamente meglio. Meno gente in sala e mi faccio amico il Vecchio, personaggio che non sono riuscita a collocare sull’albero genealogico del resort ma che ha abbastanza autorità per rimediarmi una birra dal bar. Inoltre a fine turno mi si avvicina la Vecchia: “Ieri e oggi hai fatto un ottimo lavoro, voglio offrirti da bere.” E me ne vado a casa meno stanca e con una XXXX Gold e una Vodka Lemon in mano. Altra cosa che mi solleva lo spirito è il pensiero che domani è l’ultima sera.

E, nel rispetto più ortodosso della legge di Murphy, venerdì sera si scatena l’inferno. In maniera del tutto inaspettata: il telefono tace per tutto il pomeriggio, sono ormai le 19.30 passate e la gente inizia ad andare via. Notare che per tutti questi giorni la lavastoviglie è stata inutilizzabile. Ma ho quasi finito, ce la posso fare. Vedo la luce in fondo al tunnel. Il pensiero finisce immediatamente nel cestino dei rifiuti quando entra in sala un gruppo. Uno, due, tre… non finiscono più di entrare. Sedici (16) persone. Il cuoco mastica qualche insulto fra i denti. “Arrivano dal ristorante dove lavora mia moglie. Lì non li hanno voluti perché non hanno prenotato. Qui invece non si dice di no a nessuno. Stronzi.” Mi cadono le braccia nel pantano del lavandino. La luce nel tunnel è stata spenta. Ricomincio a lavare. La Stupida entra continuamente in cucina con pile di piatti e con un volto costernato. Ho i crampi ai pollici a forza di maneggiare piatti e padelle. Quando penso che non ce la farò mai, le luci in sala si abbassano e la Stupida entra con un altro carico di piatti dicendomi: “Questi lasciali qui, li farà la ragazza domattina.” Passo a pulire per terra. “Lascia stare il pavimento del bar. Lo farà la ragazza domani mattina.” La ragazza, Claire, non sarà contenta, ma sono troppo stanca ora per essere altruista. Spengo le luci, e spunta di nuovo la Vecchia: “Allora domani vai via?” “Eh già.” “E dove andrai?” “Prima a Cairns per l’eclissi, poi a Darwin.” “Brava! Dammi il cinque! Darwin è bellissima! Lì c’è la vera Australia. E mi raccomando, vai a Kakadu; se non hai visitato Kakadu, non hai visitato l’Australia. Te lo scrivo.” Prendo il foglietto che mi allunga, ringrazio, saluto gli scarafaggi, e ho finito di lavorare.

1.360 km

Km totali percorsi: 20.450

lunedì 19 novembre 2012

Ragni, serpenti, scorpioni, zanzare e cetrioli di mare



Ora, con tutta la roba che ho da raccontare in questo nuovo post, penso che non sia necessario soffermarsi sul mango gigante di Bowen 


o sulla cena consumata in mezzo alle zanzare sul retro dell’UT sul ciglio di un anonimo campo di canna da zucchero in fuga da quella tristissima cittadina fantasma che è Ingham.


Addentriamoci invece nel Queensland settentrionale, ricco di coralli rossi e foreste verdi. Ci avviciniamo sempre di più a Cairns, e il paesaggio cambia drasticamente: senza preavviso spuntano fuori colline coperte da una giungla fitta fitta, alcune vette sono avvolte da una leggera foschia, il cielo è coperto. Una visione tropicale. Cairns è il capoluogo del Far North Queensland, si affaccia sul mare e alcuni di voi potrebbero averne sentito parlare ultimamente per via di un’eclissi totale di sole. Ricordatemi di tornare in seguito sull’argomento. Shane ha appuntamento con un suo ex-collega nel tardo pomeriggio, quindi prima di arrivare in città abbiamo tempo per fare una deviazione: Josephine Falls e Golden Hole. Il bello è che l’Australia è disseminata di attrazioni del genere e le distanze sono talmente vaste che decidere all’ultimo minuto di allungare il giro di una ventina di km è completamente ininfluente sullo svolgersi dei vostri programmi, anzi è raccomandabile. Se non altro avrete qualcosa da raccontare oltre a: deserto, bush, strada, autotreno, canguro morto. Non hanno neanche i caselli a interrompere un po’ la monotonia della guida. Che paese disgraziato, eh?
 
Dunque, Josephine Falls, oltre a essere un posto bellissimo, va segnalato anche come il luogo dove per la prima volta ho visto un serpente. Non che l’abbia visto proprio bene bene. Impegnata a chiacchierare, non noto che due turisti si sono fermati pochi metri più avanti a noi sul sentiero che porta alle cascate. Shane invece lo vede subito e attira la mia attenzione: “Serpente!” Io salto dalla parte opposta, per quanto possibile stacco disperatamente i piedi dal suolo e faccio in tempo a vedere una cordicella che striscia via lentamente e minacciosamente. Mi sono sempre immaginata che i serpenti si muovessero rapidi, a scatti (e probabilmente lo possono fare), ma questo lento serpentello smonta le mie aspettative ed è in qualche modo ancora più spaventoso. Come se fosse talmente pericoloso da non doversi neanche preoccupare di mettersi al sicuro in maniera repentina. In breve però scompare, e sono sollevata. O forse non dovrei essere sollevata, perché adesso non lo vedo più e potrebbe attaccarmi ancora più facilmente? “Fossi in te non mi preoccuperei troppo del serpente. I drop bears sono molto più pericolosi.” “I che?” “Drop bears. Attaccano i bambini che si allontanano dal sentiero. E i turisti. Stai camminando tranquillamente nella foresta, e quando meno te l’aspetti… bam! Ti piombano sulle spalle e non hai più scampo.” Sono scettica, ma Shane continua: “Il mese scorso una coppia di tedeschi è scomparsa da queste parti. Si pensava a un coccodrillo…” “Coccodrillo?!” “…invece erano drop bears.” “Mi prendi in giro.” “Pensa quello che vuoi. Io però resterei sul sentiero, se fossi in te.” Che gente, gli australiani. Non gli bastano tutte le cose potenzialmente letali che già si ritrovano in casa, sentono anche il bisogno di inventarsi leggende metropolitane su fantomatiche creature killer. “Così i bambini imparano a non allontanarsi da soli nella foresta.” Una specie di uomo nero, insomma. “E ci divertiamo un po’ alle spalle degli overseas.” Overseas sono tutti coloro che arrivano dall’altra parte dell’oceano, come avrete intuito. Che veniate dal Brasile, dal Belgio o dal Burkina Faso, sarete tutti overseas.

Rimettiamoci lesti in cammino, che è tempo di arrivare a Cairns e, leggenda o meno, non vorrei indugiare nella foresta più del necessario. A Cairns però c’è un cambio di programma: l’amico di Shane ci dà buca, quindi ora abbiamo qualche ora libera, che decidiamo di impiegare per decidere il da farsi. E per fare il bucato. Davanti al movimento ipnotico del cestello della lavatrice, stabiliamo le prossime mosse: siamo a Cairns, l’imperativo categorico comanda l’escursione sulla barriera corallina e nella foresta tropicale. Un po’ meno d’obbligo, ma Shane mi assicura che ne vale la pena, è il giro sul Kuranda Scenic Railway. Il piano è fatto. Ritiriamo il bucato, impacchettiamo tutto e abbiamo ancora un sacco di tempo libero! Di fronte alla lavanderia c’è una sala giochi: è arrivato il momento della grande sfida Australia-Italia. Le discipline previste sono: corsa automobilistica, hockey da tavolo, danza libera e tiro allo zombie.

E nel tardo pomeriggio, esecuzione del clown!
Modestamente, ho eccelso in tutto escluse le macchine. L’onore del paese è salvo. Ora possiamo anche spostarci a Port Douglas, centro turistico VIP poco più a nord di Cairns, punto di partenza per la gita in mare.

Che si svolge nel seguente modo: alla marina di Port Douglas ci imbarchiamo sulla Quicksilver, imbarcazione che ci porta su una piattaforma a circa un’ora e mezzo dalla costa, proprio sulla barriera. Durante la traversata i membri dello staff distribuiscono bevande, biscotti e pastiglie per il mal di mare. Fortunatamente questa volta la barca è molto più stabile e il vomitino è scongiurato. Sfortunatamente, il tempo è davvero inclemente: vento e pioggia. Ma vabbè, ci saremmo bagnati comunque, dal momento che vogliamo rifare snorkeling. Anzi, di più: fra le attività incluse nell’escursione c’è la camminata sottacqua. Ti piazzano in testa uno scafandro e scendi su una passerella sommersa, in mezzo a pesci, coralli e altre creature bizzarre  


ti fanno le foto, assisti al fish feeding e cerchi disperatamente di non mollare il corrimano, per evitare questo:


E senza bagnarvi i capelli! Se non sono già fradici per via della pioggia che vi siete presi sulla piattaforma. La passeggiata dura circa 40 minuti, poi si torna in superficie ed è il momento del giro in sottomarino. Semi-sottomarino. Una struttura che viaggia sommersa per metà, la cui parte inferiore, dove prendono posto i passeggeri, è costituita da una camera con le pareti di vetro. Non adatto a chi soffre di claustrofobia. Ma ancora una volta un po’ di patimenti sono ripagati da uno spettacolo eccezionale: ecco la famosa barriera corallina. Difficile stimare la profondità in acqua, ma sotto di noi si estende un sottobosco di piante, coralli, pareti rocciose, un labirinto coloratissimo e che si estende all’infinito.

La cosa che preferisco in assoluto è il corallo blu, un colore così vivace e brillante che risalta come poche altre cose qui sotto. I pesci sembrano avvezzi al sottomarino (che, in effetti, passando ogni 45 minuti, è più frequente di certi altri spettacoli), mentre noi poveri umani rimaniamo sbalorditi da tutto: “Foto, lì!” “Guarda che meraviglia!” “Tartaruga, tartaruga!” E la guida: “Alla vostra sinistra potete vedere uno squalo…” “Squalo?! Dove???” A ogni colonia di coralli penso che sia la cosa più bella che abbia visto qua sotto, ma mi tocca puntualmente ritrattare per tutta la durata del giro. 45 minuti dopo riemergiamo un po’ sballottolati (ma mai ai livelli della Blizzard) e ci prepariamo alla nostra parte preferita: lo snorkeling. Stavolta siamo pronti ad affrontare il livello di difficoltà maggiore, snorkeling in alto mare con condizioni meteo avverse. Che angoscia. Il boccaglio è sempre pieno d’acqua, fa freddo e la maschera va un po’ dove le pare. Le onde mi trasportano oltre le boe che stabiliscono il limite delle acque sicure, e spesso vado a cozzare contro gli altri snorkelisti. In più, i pesci ci sfottono e stanno tutti vicini al trampolino di lancio: insomma ne vedremmo di più e più facilmente rimanendo con i piedi saldi sulla piattaforma. E fa freddo. Decidiamo di uscire, tanto è quasi ora di tornare sulla Quicksilver e rientrare a Port Douglas.



Dove non ci fermiamo a lungo: appena sbarcati, montiamo in macchina e partiamo per raggiungere Cape Tribulation, il punto più a nord d’Australia raggiungibile senza 4x4. Il nome non promette molto bene, vero? Confesso che non ho studiato la lezione e non so esattamente cosa accadde al Capitano Cook quando arrivò da queste parti… Noi ci inoltriamo molto tranquillamente nella foresta pluviale, lungo una strada che si chiama appunto Cook Highway, ogni tanto ci affacciamo su spettacolari spiagge che alla luce del tramonto diventano se possibile ancora più belle, incrociamo un sacco di cartelli che ci assicurano che la zona è popolata di cassowary, una specie di struzzo coloratissimo e molto aggressivo (pare che nel recente passato un ragazzo di 16 anni sia stato sgozzato dagli artigli di un esemplare piuttosto irritato). Infine eccoci al Daintree River, un buon posto se siete alla ricerca di coccodrilli. Attraversiamo il fiume a bordo di una chiatta e procediamo nella foresta. Ormai è buio, la strada è tortuosa e mi chiedo se troveremo mai il Cow Bay Motel. Per fortuna dopo una decina di minuti i cartelli che incontriamo ci rassicurano: siamo nella comunità di Cow Bay. Mi domando come dev’essere aspettare il pullman per andare a scuola sul ciglio di una strada che si snoda nella giungla. La questione assorbe così tanto la mia attenzione, che a momenti manco l’insegna del motel; per fortuna, Shane no. Scarichiamo la macchina, ceniamo al pub del motel e ce ne andiamo a dormire, ché domani sarà impegnativa.

Impegnativa perché stiamo visitando un luogo particolarmente impervio e ostile del paese: passeggi nella giungla e ci sono in agguato serpenti, ragni e drop bears; ti avvicini alla spiaggia, abbondantemente percorsa da torrenti che si gettano in mare, e i cartelli ti suggeriscono di non nuotare lì perché potrebbero esserci i coccodrilli;


ti avvicini ancora di più al mare e pensi di essere al sicuro, e ti fanno sapere che stiamo entrando nella stagione delle meduse.


Paesaggi meravigliosi come sempre, eh. Ma non so se potrei reggere a lungo tutto questo. “Ok, ok ci spostiamo. Torniamo verso sud, tanto più in su non si può salire. E domani dobbiamo andare a Kuranda.
Kuranda è un ex villaggio minerario in mezzo alla foresta (ma va’), raggiungibile con un trenino panoramico che viaggia sulla stessa linea usata dai minatori fino a non troppi anni fa. Il punto di partenza è Kuranda Station, una pittoresca stazione situata una decina di km fuori da Cairns, che riesce a catturare l’atmosfera del passato senza sembrare un’attrazione di Disneyland. 


Il viaggio in treno dura circa un’ora (su panche in legno stile Antiche Ferrovie Nord - ahia) e, a costo di sembrare banale, devo dire che è spettacolare. I vagoni sono piccoli, i binari strettissimi, quindi la foresta entra prepotentemente dai finestrini. Quando la vegetazione si apre, è per mostrarci una vista eccezionale, le cascate di Kuranda.



A dire il vero il nome me lo sono inventato adesso, ma mi sembra calzante. Quando finalmente arriviamo a destinazione, scopriamo che il villaggio non è chissà quale reperto storico, ma è più simile a un’attrazione di Disneyland. Ci facciamo largo fra i turisti ammassati intorno alle bancarelle, considero la possibilità di prendere un hot dog di coccodrillo (ma finisco per prendere un gelato alla crema al rum in un tipico negozio australiano)



ci guardiamo, e: “Skyrail?” e iniziamo la discesa con la funivia sulla foresta. Non mi sento molto a mio agio, ogni volta che la cabina supera un pilone e tutti i suoi tralicci sobbalza fin troppo per i miei gusti, allora chiudo gli occhi e mi reggo alle maniglie. All’improvviso i motori si fermano: “Ommioddio!” e già mi immagino ore e ore di attesa sospesi nel vuoto ad attendere i soccorsi. Ma no, le fermate sono programmate, così che i passeggeri possano godersi il panorama. Da quassù di volta in volta vediamo il villaggio, le cascate di prima, la ferrovia e il trenino che fa la spola, una distesa di alberi tropicali, altissimi, rigogliosi, che lottano per arrivare alla luce, e che nella loro scalata verso il cielo portano con sé delle orchidee antichissime e gigantesche.


Ci rendiamo conto che il viaggio è quasi terminato quando, superata l’ultima altura, avvistiamo la città e l’oceano. Scendiamo a terra e rieccoci al punto di partenza, Kuranda Station. Ma la discesa non è ancora finita; anzi è appena cominciata. Abbiamo visto la barriera corallina, abbiamo esplorato le foreste tropicali del Queensland, abbiamo percorso le vie dei minatori del secolo scorso e abbiamo toccato il punto più settentrionale che i nostri mezzi ci permettono di raggiungere. 

740 km

Km totali percorsi: 19.090
È il momento di rimettersi in strada e tornare verso sud.

martedì 13 novembre 2012

Si riparte!



La prima parte del viaggio verso nord trascorre in mestizia: alle spalle un addio davvero emozionale, e davanti a me un viaggio di 8 ore verso la nostra prima tappa, Yeppoon. Mi perdonerete se non ho divertenti aneddoti da riportarvi, ma vi assicuro che in 8 ore è successo veramente poco o niente. Uniche cose degne di segnalazione: ho visto finalmente in maniera dignitosa i miei primi canguri (non morti, non in mezzo alla boscaglia, ma ai margini di un centro abitato) e ho visto un’echidna! Sapete cos’è un’echidna? Per qualche motivo pensavo si trattasse di un uccello pieno di pungiglioni, invece mi sa che la confondo con il kiwi. E il kiwi lo confondo con il frutto. L’echidna è più simile a un porcospino, ma gli aculei sembrano cattivi come quelli dell’istrice. Appartiene alla stessa famiglia dell’ornitorinco, ovvero quella dei mash-up animal, quelli che non sai se sono mammiferi o rettili, e per questo hanno inventato una categoria apposta per loro. Della categoria fanno parte appunto l’echidna e l’ornitorinco. È un club molto esclusivo. Mi spiega Shane che molte echidne muoiono sotto le macchine, investite nel tentativo di attraversare, e anche le auto non ne escono tanto bene: ruote da buttare. Per fortuna di tutti, la nostra echidna quando ci vede arrivare si ferma sul ciglio della strada, anzi ci ripensa e torna indietro. Torniamo indietro pure noi, scendo dalla macchina e corro a vederla con una certa circospezione, chiedendomi in che modo potrà mai attaccarmi. In Australia le creature viventi si dividono in pests, ovvero seccature infestanti, e predatori, che cercheranno di ucciderti a ogni piè sospinto. E poi ci sono i drop bears, di cui vi parlerò in seguito. Non so se l’echidna sia una pest, ma credo se non altro di essere al sicuro: in questo momento lei è sicuramente molto più spaventata di me, ha il musetto affondato nel terreno e di certo sta pensando: “Speriamo che non mi abbiano visto… Dio, ti prego, fa’ che non mi abbiano visto…” mentre con le manine cerca di scavare più a fondo. 


Poverina, ti abbiamo spaventato abbastanza. E dopo questa sosta le 8 ore sono diventate 8 ore e 10 minuti, quindi è meglio proseguire.
Anzi, quindi è meglio arrivare direttamente a Yeppoon, località costiera poco distante da Rockhampton. A parte la spiaggia che sembra una pista di atterraggio e i pomodori a $ 5,40 al kilo (scusate ma dopo aver visto cartelli che riportavano prezzi ridicoli, tipo 12,90 $/kg, questa rarità merita una foto),


non c’è molto altro da segnalare. È anche piuttosto tardi quando arriviamo, lasciamo di corsa le valigie in ostello e andiamo a mangiare qualcosa, per poi andare a dormire. Come in molte cittadine australiane, qui si spegne tutto molto presto, e alle 8 di sera non c’è speranza di trovare un’anima per le strade. Non puoi neanche dire vado in spiaggia a bermi una birra sotto le stelle, perché non si può bere nei luoghi pubblici. Non resta che andare a dormire, che domani ci aspetta un altro lungo viaggio.

Prossima fermata: Sarina, 300 km più a nord. Il bello è che a parte pochi punti stabiliti (tipo Cairns), decidiamo le tappe via via che ci spostiamo. Ma sai che sto posto mi ispira? E fermiamoci, dunque! Sarina è l’esempio perfetto. Dopo aver cazzeggiato a lungo in quel di Yeppoon, è chiaro che oggi non arriveremo lontano, quindi tanto vale prendersela con calma. Perché stressarsi per arrivare a Mackay, una città che difficilmente offrirà qualcosa di diverso da centri commerciali e centri commerciali, e non ci fermiamo in quest’altra graziosa località costiera? Al posto dei centri commerciali ci sono solo resort, motel e un piccolo supermercato. E i barbecue pubblici accanto alla piccola piscina del motel. Uhm. Supermercato e barbecue. E nessun ristornate in vista. Sapete che vuol dire questo? Grigliata! A pochi metri dall’ennesima spiaggia chilometrica. La stessa spiaggia su cui si apre la porta finestra del motel.


La mattina posso svegliarmi, aprire le tende, vedere l’alba e tornare a dormire. Che meraviglia. Ah, no. Non posso tornare a dormire. Oggi dobbiamo arrivare a Airlie Beach, e questo è un appuntamento fisso.

Airlie Beach è una cittadina orrendamente turistica, ma è il punto di partenza ideale per visitare le Whitsundays Islands, un arcipelago di 74 isole sparse fra la costa e la barriera corallina. Barriera corallina che, probabilmente non vi ho detto, inizia dalle parti di Bundaberg e prosegue a nord per più di 2.500 km. Da Airlie Beach partono molte escursioni di 2-3 giorni in barca, e il piano è proprio quello di trascorrere il mio compleanno in questo paradiso. D’altra parte, l’avevo detto fin dal primo post, ricordate? Prenotiamo quindi l’escursione di 2 giorni su una barca chiamata Blizzard e ci prepariamo a partire l’indomani. Che giorno è l’indomani? 14 ottobre! Yeeee, auguri Swaggirl! Mo sono 30, eh? Metti la testa a posto e fa’ la persona seria!


La partenza è prevista per le 4 del pomeriggio dalla marina di Airlie Beach. Siamo accolti a bordo (rigorosamente scalzi) da Chriscoe e il suo mozzo/fidanzata, che non appena mi sente parlare al telefono con la mamma mi domanda: “Italiana?” Si chiama Giulia, è fiorentina ed è in Australia da 8 mesi, di cui gli ultimi 6 li ha passati qui a lavorare sulla barca. “Complimenti, ti sei scelta proprio un bel lavoro!” “Eh, non è male come ufficio, no…” Oltre ai due membri dell’equipaggio, la barca ospita 10 passeggeri: Simon e Keira, irlandesi che vivono a Sydney, e Noel, il padre di lei, in visita, che ha una passione irrefrenabile per i nostri laghi del nord; Minerva, messicana, e il suo fidanzato Fernàn, svizzero urugayano. Max, tedesco, e i Germans (perdonate ma non ho capito i nomi), una coppia sulla cinquantina.



Beh, posso dire che mentre la compagnia a Fraser lasciava molto a desiderare, qui non potevo chiedere di meglio: tutte persone simpatiche e deliziose. E, forse sarò influenzata dalle condizioni sociali, ma anche i posti mi sembrano infinitamente migliori. Citerò di nuovo la mia amica Bellapasta, che è stata qui prima di me: “Ti sembra di stare davanti a un’immagine ritoccata con Photoshop, e invece ce l’hai lì davanti agli occhi, per davvero.” Credo che questa affermazione riassuma sufficientemente bene il concetto.*
 
L’unica controindicazione è il mal di mare! Non so come, ma non mi è passato neanche per il più remoto angolo del cervello il pensiero che potessi sentirmi male. Sei sul ponte, la nave sballonzola, c’è vento, allora decidi di andare sotto, per essere un po’ più riparato. Vai sotto, e forse sei al sicuro dalle intemperie, ma la barca sballonzola molto di più quaggiù! Per fortuna i nostri compagni di viaggio sono tutti molto più sgamati di noi e dotati di travelgum, che porta un po’ di tregua. Ma sapete qual è la soluzione definitiva? Scendere dalla barca. A terra o in mare, l’importante è scendere dalla barca. Infatti una volta raggiunta la riva, su una delle 74 isole chiamata Whitehaven, bacio la terra e mi sento molto meglio. E mi rendo conto che è valsa la pena soffrire un po’: è un luogo incantevole. La sabbia è bianchissima e impalpabile, sembra farina, il mare è cristallino, e non c’è nessuno a parte noi. Un’isola deserta. Ovviamente non appena raggiungiamo e superiamo il promontorio all’estremità nord, scopriamo che un’altra barca ha ormeggiato e sbarcato i suoi turisti, ma vabbè, sono disposta a condividere tale meraviglia con gli altri. Anzi non vedo l’ora di mostrare al mondo questo luogo eccezionale, ogni giorno diverso perché ogni giorno il mare disegna nuovi paesaggi di sabbia nella laguna. Ma la contemplazione non dura a lungo, ahimè dobbiamo tornare sulla barca, ormai è quasi sera, è ora di cena. E del brindisi: rivelo che oggi è il mio compleanno, e libiamo i calici. E le sorprese non sono finite: miracolosamente, in mezzo al mare, ricevo una chiamata via skype dalle mie amiche, che si sono date appuntamento per farmi una sorpresa. Purtroppo la tecnologia funziona a singhiozzo, la telefonata non dura a lungo, quindi ci salutiamo in fretta. Ma è stata comunque una splendida sorpresa.

Il giorno dopo ci spostiamo in un altro punto dell’arcipelago, un luogo favorevole per lo snorkeling. Ora, devo dire che questa pratica non mi ha mai attirato particolarmente. Capisco il fascino delle immersioni, anche se non lo condivido: troppa paura delle profondità! Ma lo snorkeling, no. Mi immaginavo persone semi-arenate a riva con la loro mascherina a cercare pesciolini che si possono vedere altrettanto bene stando in piedi nell’acqua. E tutta la meccanica del boccaglio mi ha sempre un po’ spaventato. D’altra parte, mi piace fare esperienze nuove, quindi tanto vale provare anche questa, così la tolgo dalla lista. Giulia ci distribuisce le mute, e penso di aver trovato un altro motivo per cui questo snorkeling non mi ispira: quanto è difficile indossare la maledetta muta? La barca nel frattempo si è avvicinata a una piccola baia. Uno, due, tre… in acqua! Siamo a pochi metri dalla riva, ma mi agito un po’ perché non riesco a toccare il fondo. Me la cavo col nuoto – ho uno stile tutto mio, ma riesco a galleggiare – ma non posso definirmi una persona particolarmente acquatica. Mi ci vuole un po’ per prendere confidenza con l’acqua, e un po’ di più per interiorizzare il funzionamento del boccaglio. E finalmente do un’occhiata sotto: in forse 3 secondi individuo i primi pesci e mi rendo conto che non voglio fare altro nella vita. Altro che pesciolini, poi! I più piccoli sono grossi come la mia mano, si spostano in banchi stando ben attenti a evitare gli umani e hanno colori stupendi! È incredibile pensare che qua sotto ci sia tutta questa varietà cromatica, ed è stupefacente vedere quanto sotto sia grande! Forse ancora più dei pesci sono i coralli e le piante a lasciarmi sbalordita, con le loro strutture eclettiche e perfette. E infine, il pezzo che tutti ricercano: la tartaruga! Simon ne individua una e inizia a fare ampi gesti per richiamare l’attenzione di tutti. Trovo che sia bellissimo: siamo tutti consapevoli di vivere un’esperienza eccezionale, che non possiamo fare a meno di condividerla con gli altri, con un entusiasmo squisitamente infantile. Per la prima volta da quando sono arrivata in Australia ho la percezione di stare acchiappando la vita, in questo preciso momento.


Non appena formulato il pensiero, c’è qualcosa che acchiappa me. Oddio una medusa. Penso che fra tutti i predatori che cercheranno di ucciderti a ogni piè sospinto, la medusa sia quella che mi spaventa di più. Tecnicamente non è neanche un predatore, anzi non gliene può fregare di meno della presenza umana. Ma una varietà particolare di medusa pare essere l’animale più velenoso del pianeta, e naturalmente si trova in Australia. Il suo grado di velenosità riassunto in termini di tempo che ti rimane per raggiungere un ospedale: molto poco. Non sono un’esperta di meduse, quindi per me ogni medusa è quella che ha il tuo nome scritto sopra. E non appena mi rendo conto che la cosa che mi ha sfiorato la mano è una medusa, vado in panico. Inizio ad avvertire un leggero prurito sulle dita, ovviamente frutto di pura suggestione. Il molto poco tempo però trascorre, e insomma io sono ancora qui a raccontarvela. Ma l’incontro ha spento momentaneamente il mio entusiasmo, e inizia a fare freddo in acqua: è tempo di tornare a bordo e sfilarsi la muta, operazione se possibile ancora più difficile che indossarla. Potrei fare un altro esperimento e provare il paddle-board… ma magari un’altra volta. Adesso ho bisogno di asciugarmi e di ricominciare la mia lotta contro il mal di mare. Ed è anche ora di rientrare ad Airlie Beach, l’escursione è finita. Ritorniamo sulla terraferma e trasferiamo tutti i bagagli verso l’ostello di questa notte, un posto davvero particolare, situato in mezzo alla foresta. Siamo però troppo stanchi per fare veramente caso alla struttura: la vita di mare è impegnativa, e domani si ritorna in strada.
A proposito, ma quanto abbiamo camminato finora?

870 km
Km totali percorsi: 18.350

Lasciatemi chiudere dicendo che mi rendo conto che questo post è la fiera di aggettivi quali meraviglioso, stupendo, eccezionale… Che dire, sono le Whitsundays. Per ora è senza dubbio il posto più bello che abbia visitato, e se dovessi trovarne uno ancora più bello… mamma mia!

*Se non vi bastano le parole, vi rimando al consueto servizio fotografico.