lunedì 29 aprile 2013

Flashforward. O, per gli anglofobi, prolessi

Saprete - o forse no - che, nel tempo reale di questo viaggio, è arrivato per me il momento di tornare a casa. Un po' prima della scadenza del visto, ma d'altra parte quando sono partita non mi sono mai posta come condizione quella di rimanere tassativamente per un anno. Le ragioni della mia decisione le racconterò al momento debito, ovvero quando finalmente avrò recuperato il filo delle mie vicende e arriverò a raccontarvi di questo momento, di me seduta nella reception di un ostello in attesa della navetta per l'aeroporto.

Per ora scrivo soltanto per farvi sapere che nelle settimane a venire potrei essere più latitante del solito, accumulando ritardi su ritardi. Ma vi assicuro che, anche se nei prossimi mesi vi racconterò infinite volte le mie storie di persona (anche se non vorrete ascoltarle)... beh, non mi piace lasciare le cose a metà, quindi finirà tutto nero su bianco. Arial su schermo.

Vi anticipo intanto una piccola novità. A partire dai prossimi post il blog non sarà più pubblico, ma sarà accessibile su invito. Devo ancora capire bene come funziona, sono sicura che è semplicissimo, se solo mi prendessi la briga di leggere le istruzioni... Ma ce la farò!

Bene, è ora di chiudere la valigia. A presto!

domenica 28 aprile 2013

Il silenzio degli agnelli di 'sta cippa



Allora, mettiamo in ordine le idee e cerchiamo di capire qual è il miglior modo di raccontare i due mesi e mezzo passati a Camden Springs. Ci ho riflettuto assai, e credo che sia meglio affrontare la questione per settori produttivi: pecore, mucche, varie ed eventuali. Iniziando dalle pecore.

Ho scoperto che le pecore sono animali timidissimi. No, aspettate, questa è la scoperta dell’acqua calda. La pecora è l’animale mansueto per definizione, c’è fior fiore di iconografia religiosa che ce lo ricorda. Fate il minimo movimento verso la pecora, e lei subito si sposterà nella direzione opposta con grande fretta, seguita con fretta ancora più grande da tutte le sue sorelle. 

Noi ce ne andiamo

Magari un attimo prima sono tutte sdraiate all’ombra di un eucalipto a riposare, o intorno all’abbeveratoio a rinfrescarsi… ma nell’attimo stesso in cui avvertono che uno sgradito bipede o il suo servo canino si avvicina, nulla al mondo potrebbe farle rimanere al loro posto. A meno che… a meno che non sia l’ora del pranzo.

Dal momento che quest’anno la siccità è stata davvero spietata, nei campi l’erba scarseggia, quindi Ric è costretto a integrare la dieta degli ovini con i cereali. Ogni tre giorni distribuiamo una striscia di orzo nel pascolo, e allora apriti cielo! Non ho mai visto una cosa del genere: non appena le avanguardie vedono arrivare il pick up, iniziano a gridare eccitate, e in pochi secondi una fiumana di pecore corre nella nostra direzione. E che belati esigenti! “Allora, ti sembra questa l’ora di arrivare? Abbiamo fame! Dacci da mangiare! Fame! Fame!” Non so se riesco a darvi un’idea della scena. Facciamo così: avete presente un qualsiasi film di zombi? 


Ecco. C’è persino la pecora tripode, che conferisce il giusto tono gore alla situazione. Pecore zombi. Questa sì che è un’idea accattivante… Beh, capisco che potrei non aver suggestionato a sufficienza la vostra immaginazione. Ergo ho pensato bene di girare un nuovo capolavoro in 3D per documentare il mio vissuto. 



Come dite? Non è in 3D? Ma avete messo gli occhialini? Sempre solo 2D, capisco. Beh, meglio così. Il 3D è sopravvalutato.

Comunque, le pecore sono così affamate che dimenticano tutta la loro timidezza, se ne sbattono del rischio di finire sotto le ruote del pick up e arrivano anche a calpestarsi l’una con l’altra. La striscia di orzo diventa sempre più lunga, e loro mollano il pezzetto che si erano guadagnate a suon di spintoni perché sono avide di sapere se il nuovo segmento a terra nasconde qualche sorpresa. Finché non ce ne andiamo, continuano a correrci dietro. E questo è il primo segnale che mi suggerisce che quando si parla di masse di pecoroni… beh, non sono proprio parole dette a caso.

Sul serio, più passa il tempo, più vedo crescere le somiglianze fra pecore e persone. Per esempio, al momento della vaccinazione degli ovini. Non si tratta proprio di un vaccino, piuttosto di fermenti lattici/integratori minerali o qualcosa di simile. Una roba color fango dall’odore di melassa. Si fanno entrare le pecore in un recinto, collegato a un altro recinto da uno stretto corridoio, quindi si fanno passare nel corridoio, ammassate il più possibile, e con una specie di pistola si spara in bocca una per una le buone vitamine.
Naturalmente le pecore non hanno idea che tutto ciò è volto al loro bene. Loro capiscono solo che ci sono tre cani che abbaiano furiosamente e cercano di evitarli per quanto possibile. Per un po’ corrono ripetutamente in tondo nel recinto di partenza, cercando disperatamente una via di fuga; poi basta che una sola capisca qual è la direzione da prendere, il corridoio, che subito la massa la segue. Quindi, dicevo, si ammucchiano le pecore strette strette – è il principio del controllo delle folle, no? – finché non hanno più spazio di manovra, e sono bloccate le une dalle altre. 

Embee?

In caso stiano troppo larghe, i cani le spingono nella direzione desiderata. Spingere è una parola grossa: non è neanche necessario il contatto fisico, basta la mera presenza per impaurirle. Una pecora poveretta era così spaventata che ha iniziato a correre avanti e indietro per il recinto, finché non ha sbattuto la testa contro la staccionata e si è spezzata il collo. Ma la povera bestia era ancora viva! Ovviamente non è durata a lungo… 

A questo proposito, mi sembra opportuno sfiorare un argomento che, ahimè, messo per iscritto non darà mai un’idea adeguata della realtà dei fatti: la puzza di morte. Non so quanti di voi hanno avuto modo di vivere questa esperienza sensoriale. Io, prima di arrivare qui, mai. Potreste pensare che il pesce che avete dimenticato in frigorifero prima di partire per le vacanze sia ambasciatore degno della puzza di morte. Neanche per sogno. Avete presente quando, nelle serie tv, trovano un cadavere vecchio di qualche giorno, e si coprono naso e bocca con la mano? Balle. L’unica, realistica reazione è scappare il più lontano possibile, mentre si tenta di trattenere i conati. Una pecora morta da un giorno è quanto di più terribile possa registrare il vostro olfatto. Un odore dolciastro, pesante – ok, col retrogusto di pesce – che, giuro, toglie letteralmente il respiro, e ci vuole un po’ di tempo (e parecchi metri di distanza fra voi e la carogna) per tornare a respirare liberamente.

In mancanza di un'immagine adeguata...

Ma! Passiamo a un argomento un po’ più piacevole. Per noi, non per le pecore. Le abbiamo sfamate, la abbiamo vaccinate, ora sono pronte per andare incontro al loro destino di pecore: la tosatura. Che avviene una volta all’anno (in questa fattoria, almeno), in qualsiasi periodo dell’anno. Ma ci sono dei requisiti da rispettare: le pecore devono essere ben asciutte, perché la lana umida è difficile da maneggiare, e devono essere portate nel capanno della tosatura almeno un paio di ore prima dell’inizio dei lavori, altrimenti sono troppo accaldate. I turni di lavoro sono organizzati in round di 2 ore l’uno, intervallati da mezz’ora di pausa (un’ora per il pranzo). Il sindacato dei tosatori è molto esigente, e gli iscritti prendono anche dei bei soldi. Il tosatore capo per noi è Doug, che gira gli allevamenti della zona per tosare pecore e alpaca e a seconda delle necessità è coadiuvato da altri due tosatori. Quindi, si comincia.

Giorno 1
Il programma prevede di cominciare alle 7.30. Io mi presento alle 7.32, e Doug è già all’opera, alle prese con la primissima pecorella. La afferra per le zampe anteriori, la trascina alla postazione, si appoggia con il busto al gancio che serve a sostenere l’operatore e inizia a tosarla. Prima di tutto, via il manto che ricopre la pancia, che va in una borsa a parte. Poi zampa posteriore destra, fianco, sposta la pecora, gira la pecora, capelli sfumatura alta, grazie. La povera bestia mi guarda, non so se rassegnata o implorante. Col passare dei giorni, ho codificato tre diverse espressioni che possono apparire sul muso della pecora:

  1. Espressione: Non so cosa ti hanno detto, ma hai preso la pecora sbagliata.
  2. Espressione: Ma cosa stai facendo? Ti sembra il modo?
  3. Espressione: Ti pregotipregotiprego non farmi del male.
In ogni caso, quello che sta accadendo ora è comunque infinitamente meglio di quello che si aspettassero quando sono state cacciate nel recinto adibito alla tosatura. Mentre io mi immagino i pensieri delle sventurate, Doug ha già finito: un buon tosatore impiega circa 2 minuti a tosare una pecora. Mentre Ric raccoglie il manto, un pezzo unico, io spazzo via i brandelli che si sono staccati nel mentre, e Doug senza troppi complimenti spinge la pecorella attraverso la porticina che dà sullo scivolo che finisce in un recinto separato, la zona dei nudisti.

 
Dopo la cura

E avanti la prossima! Intanto Ric mi mostra cosa si fa con la lana: stesa sul tavolo da lavoro, si libera dei grumi più grossi di sporcizia e – povera pecora – dei pezzi di pelle viva che sono venuti via. Per fortuna non sono molti, e ancora una volta credo che le pecore si considerino fortunate a cavarsela tutto sommato con così poco. Dopodiché la lana viene messa in un sacco all’interno della pressatrice, che oltre a pressare la lana ci fa sapere anche il peso. In media una di queste pecore (merino) si porta addosso 4 kg di lana. Morbidissima! E un po’ oleosa, a maneggiarla le mani rimangono unticce.

Mi sembra di correre come una matta per tutto il capanno, mi fanno addirittura provare a raccogliere la lana. Non è un lavoro scontato come si potrebbe pensare. Così come per tosare, anche per raccogliere la lana c’è una tecnica particolare: prima si afferra la zampa posteriore destra dal lato sporco, che sarebbe il lato esterno, quindi la zampa sinistra, si accumula il manto con i piedi, si fa su con le mani indietreggiando, quindi si avvolge tutto intorno alle prime zampe che avete raccolto. Ora con un gesto ampio e deciso si stende sul tavolo, come una tovaglia. Se avete fatto le cose per bene, dovreste avere ben distesa sul tavolo, con il lato sporco che guarda in su, la vostra pelliccia di lana merino. Io naturalmente mando lana da tutte le parti.

Ecco come dovrebbe finire

Giorno 2
In cui mi rendo conto che la sporcizia che eliminiamo con la prima sgrossata consiste in cacca di pecora secca.

Altri eventi salienti della giornata:

·         Una povera pecora ha ricevuto un taglio troppo corto. Così corto che le hanno bucato il pancino… Fiotto di sangue rosso scuro che cola senza fermarsi, ma Doug afferra ago e filo e sutura su due piedi la ferita. Io guardo incuriosita e giro la testa dall’altra parte impressionata, più volte, mentre Ric mi chiede se ho intenzione di svenire.
·         Una pecora particolarmente agguerrita riesce a scappare dal recinto e mi carica! O meglio, io mi sono coraggiosamente messa fra lei e la porta del capanno, sperando che come al solito lei si fermasse spaventata. Invece questa qui ha deciso che Doug le fa più paura di me, e mi finisce addosso. Bilancio finale: 0 feriti, 1 tosata.
·         Ho scoperto con immensa gioia, salendo sulla bilancia per pesare la lana, che non ho preso un kg da quando ho lasciato l’Italia!

Come vedete, una giornata ricca di avvenimenti. E ancora solo un tosatore.

Giorno 3
In cui arrivano i rinforzi: il tosatore n. 2, Kel, e una raccoglitrice, Jacintha. Sono molto sollevata che qualcun altro abbia il compito di tirare su la lana, ero davvero preoccupata al pensiero di doverlo fare io. A parte che non lo so fare, ma è anche un lavoro tremendo: la lana pesa, la terra è bassa e il lancio sul tavolo richiede una certa forza! Io invece me la cavo solo col mal di schiena di chi sta in piedi troppo a lungo e male ai pollici (ebbene sì) per via della sgrossatura. Ma anche questa giornata arriva al termine, abbastanza velocemente devo ammettere. I lavoratori se ne vanno, e io e Ric ci fermiamo a sistemare il capanno. Al lavoro sull’ultima balla dilana, scopro che questo settore è fortemente regolamentato: per chiudere la balla si devono utilizzare necessariamente 9 ganci, non uno di più, non uno di meno.
Parlando di cose meno ridicole, Ric mi spiega delle differenti qualità di lana, che si classifica in base alla “lunghezza d’onda” del filo, allo spessore, alla resistenza. Oh, e l’altra scoperta della giornata: non è solo la cacca a inzaccherare il manto delle pecore. La lana giallastra non è di quel colore per via dell’usura, e non è umida per via del sudore.

Tosatori all'opera

Giorno  4
Oggi Kel e Jacintha sono sostituiti da Bruce e Josh. Quest’ultimo non ha l’esperienza e la velocità di Jacintha, ma ancora una volta ringrazio il cielo di non dover fare io il suo lavoro. A parte questo, nulla di particolare da segnalare. La giornata si conclude senza incidenti; luci spente, ultima balla chiusa, reciproca pacca sulla spalla.

Giorno 5
Ed eccoci arrivati al giorno di chiusura! Devo dire che all’inizio ero molto, molto incuriosita dall’argomento tosatura. Ora, 850 pecore dopo… basta, vi prego. Non ne voglio più sapere. Almeno fino a marzo, quando si toseranno gli agnelli.

Non ha una faccia felice, vero?

lunedì 22 aprile 2013

Ma cosa sono venuta a fare ad Harden? - Introduzione



Il viaggio dura circa un paio d’ore, ed eccomi infine ad Harden, importante centro agricolo secondo Wikipedia. Scendo dall’autobus (ma non sono da sola, con me c’è anche una coppia di attempati signori) e scopro con orrore che il telefono non prende. Spero che i miei ospiti si palesino in fretta, altrimenti non so proprio come fare a contattarli. 

E per fortuna Ric è già qui, attraversa la strada, mi squadra, lo squadro, ci presentiamo. A differenza del pirla precedente, lui sembra proprio corrispondere all’idea di fattore dell’estremo centro del paese. Ha persino i coprisedile del pick up in manto di pecora. Lungo il tragitto non parla molto, e io sono un po’ stanca per cercare di intavolare una conversazione, per non dire che come al solito sono un po’ tesa, soprattutto quando lasciamo la strada principale per svoltare su una strada sterrata che si inoltra in mezzo ai campi. Parecchio. Ogni tanto qualche fattoria si affaccia lungo il sentiero, ma la sensazione di essere in mezzo ai bricchi aumenta ogni chilometro che percorriamo. Gli unici esseri animati che incontriamo sono pecore, mucche, cavalli e un canguro. Il paesaggio qui è molto collinoso e bruciato dal sole. Come scoprirò presto, quest’anno la siccità nella zona è stata tremenda.



Dopo circa mezz’ora da che abbiamo abbandonato la strada principale arriviamo a casa, una tenuta di nome Camden Springs. Qui vivono Ric e sua moglie Lexie; lui alleva mucche e pecore merino (a differenza dei miei precedenti host, questa è la sua attività principale), mentre Lexie insegna matematica nella scuola locale. La coppia ha due figlie della mia età, che vivono a Sydney. Dopo aver lasciato la valigia in camera (una camera vera! senza bestie che piovono dal soffitto!) cerco di prendere confidenza con luoghi e persone e do una mano a pacciamare – sfruttiamo questa parola, finché ne ho l’occasione – il giardino.

Dopo pranzo Ric deve fare un giro di controllo della fattoria, e mi porta dietro per mostrarmi le sue terre. La proprietà è tagliata a metà dalla ferrovia, ed è suddivisa in vari pascoli, che ospitano mucche gravide, manzi, giovenche (questo post è ad alto contenuto culturale, guardate che ricchezza di tecnicismi!), pecore, hogget (ovvero pecore nubili), agnelli. Tori e arieti stanno in un pascolo tutti insieme dedicandosi a tipiche attività ricreative maschili: giocano a carte, si fanno un goccio e via dicendo. Ci accompagnano nel giro di ricognizione i tre ferocissimi cani da pastore di razza kelpie, Fonz (come Fonzie), Fred (come Fred Flintstone) e… Fi*a. Sì, come quella, ma con la K, dato che siamo in Australia. Il nome è stato scelto da una wwoofer precedente, pare che in svedese significhi merenda. Per me sarà sempre Oh, Piccolina, Cagnettina, Pirlettina, Non mordermi!, Sta’ giù.




Uh, al censimento della fattoria devo aggiungere la mia nuova nemesi volatile: non più il kookabarra, ma il cacatua, se possibile ancora più irritante perché si muove in stormi grossi e rumorosi. Fa versacci più brevi del suo amico del Queensland, ma molto più striduli e fastidiosi. Ed è molto meno timido, non esita ad affacciarsi alla finestra della mia camera, se pensa di poter trovare qualcosa di interessante.
E nel frattempo, abbiamo finito il giro della fattoria. È quasi ora di cena, ma prima c’è ancora tempo per qualche tiro a golf, sport di cui Lexie e Ric sono grandi appassionati. Io sto lì a osservare per un po’, dopodiché decido che è una disciplina troppo tecnica per i miei gusti, e vado a farmi una doccia. Il primo giorno di questa nuova tappa è arrivato alla fine.


mercoledì 17 aprile 2013

Breve intermezzo capitale



Non appena sono scesa dalla macchina, dopo i falsissimi ringraziamenti del pirla, mi sento tanto, tanto leggera. Mi sembra che da qui il viaggio può solo migliorare. Ecco, credo di essermela gufata di nuovo.

Comunque, sono a Canberra, dove passerò qualche giorno prima di andare nella nuova farm. Voglio spendere qualche parola sulla capitale australiana, perché è una delle città più ridicole che io abbia mai visto. Intanto, ci sono solo due ostelli in città. E, a giudicare dai letti vuoti nella mia stanza da 8, sembra pure un numero eccessivo di strutture ricettive. Per fortuna comunque l’ostello è pulito, niente da spartire con la catapecchia delle pulci.

La città, dicevo. Quest’anno cade il centenario della fondazione. In pratica si sta ancora liberando dagli imballaggi. Canberra è stata costruita apposta per essere la capitale del paese (Canberra come Brasilia, potrebbe dire qualcuno): le due principali candidate erano Sydney e Melbourne, ma dato che gli australiani non riuscivano a decidere, è stata fondata una città ex novo, a metà strada fra le due. E visto che nessuno stato doveva avere l’onore di ospitare la capitale, hanno ritagliato un po’ di terreno qua e là ed è nato l’ACT, Australian Capital Territory. La città si sviluppa sulle due sponde di un bacino artificiale: da un lato gli edifici istituzionali – ministeri, musei, vecchio e nuovo parlamento – dall’altro il CBD. Dove sta il mio ostello. La zona non è male, ma non diresti mai che ti trovi in una capitale. La main street, su cui si affacciano centri commerciali, negozi e bar, non si sviluppa come una linea retta, ma forma una sorta di poligono non identificato. Ci sono un sacco di statue bizzarre, fontane, aiuole alberate.


Tutto sommato non mi dispiace. Oggi però voglio andare a visitare l’altro lato del lago. Anche perché è sabato pomeriggio e, che ci crediate o no, il centro è deserto. Non c’è in giro un’anima. 

Questa città è strana… soprattutto da visitare. Ora, dopo più di sette mesi e una quarantina di post, avete capito che io e il senso dell’orientamento non siamo amici intimi. E in questa città è tutto più difficile, anche se non riesco a capire perché. Continuo a girare, e anziché al ponte che attraversa il lago, finisco di volta in volta a imboccare autostrade, circonvallazioni, cavalcavia… Questa città non mi piace. Poi appena esci dal centro gli edifici si rilassano e si prendono tutto lo spazio necessario, quindi per andare dal punto A al punto B c’è da scarpinare. Tanto.


Mi ci vogliono due giorni - giuro - per capire come attraversare il maledetto ponte, e finalmente arrivo nella zona dei musei. 
E per cominciare me ne vado in biblioteca, che mi devo riposare. Peccato che quando decido di riprendere i miei giri (e la biblioteca chiude), inizia a piovere e tirare vento. Vabbè. Direzione parlamenti. Il vecchio parlamento, che oggi ospita non so cosa, è adagiato ai piedi di una collina, in cima alla quale c’è il nuovo parlamento. Anzi, nella quale c’è il nuovo parlamento: un edificio scavato in parte nella roccia e sormontato dalla più grande struttura in alluminio d’Australia – o del mondo, non ricordo – come mi hanno fatto sapere con orgoglio. Oh, naturalmente, prima di arrivare al parlamento nuovo, ho sbagliato strada e sono andata nella direzione opposta. Ma grazie a questo inconveniente ho trovato, attenzione, l’ambasciata aborigena:


Rigorosamente non riconosciuta dalle istituzioni. Accanto all’ambasciata sono piantate una decina di tende, dove vivono aborigeni che si sono installati lì per protesta. Non ho capito per cosa.

Comunque, come si dice, chi non ha testa ha gambe, e io le mie gambe le ho messe a dura prova in sti giorni. Cammina, cammina, arrivo infine al nuovo parlamento. Ne è valsa la pena? Secondo me, no. Giudicate voi.


Ma facciamo un ultimo sforzo, e cerchiamo di capire dove devo prendere il bus per recarmi alla nuova farm. Viste le peripezie labirintiche, è meglio essere preparati. E infatti ci metto tanto tempo e tanta suola di scarpe per capire dov’è la fermata, e il giorno dopo rischio comunque di perdere l’autobus: in attesa all’anonima fermata, aspetto il bus della Countrylink delle 9.47. Sono le 9.47, ma arriva un bus di un’altra compagnia. Tentenno, chiedo o non chiedo? E meno male che chiedo! “Scusi, questo è il bus della Countrylink?” “Certo! Come ti chiami? Dove devi andare?” “Ad Harden…” “Ecco il tuo biglietto! Ma cosa vai a fare ad Harden? Nessuno va ad Harden!

Cominciamo bene…

lunedì 8 aprile 2013

A volte faccio bene a odiare la gente




Come vi ho raccontato, ho passato un buon Natale, ma ora mi prudono i piedi: credo sia l’ora di accumulare altri giorni per ottenere il secondo visto.
Dopo le feste inizio a sfogliare il mio WWOOF book per individuare una possibile area di interesse. New South Wales. Ma perché no? Mando mail a nastro, e la prima risposta che mi arriva è da tale Peter. La sua mail è molto dettagliata, mi spiega che tipo di farm gestisce con la sua famiglia, mi racconta degli altri wwoofer che hanno avuto e mi chiede qualcosa di me. Ricevo anche una mail da un altro farmer, che dice semplicemente: puoi venire a partire dal 2 gennaio. Beh, la mail di Peter mi ha colpito molto di più: voglio fidarmi del mio istinto, e prendiamo accordi. Volerò a Sydney, quindi da lì prenderò il bus per Canberra, dove Peter verrà a prendermi.

Devo però passare una notte nella capitale del NSW, e quindi decido di appoggiarmi a uno dei miei contatti: Francesco, esule vanzaghese (!!!) che è arrivato in Australia pochi mesi prima di me e si è stabilito a Sydney. Pensate che a casa ci siamo rivolti la parola forse 2-3 volte, ci siamo conosciuti solo dopo aver saputo dei rispettivi piani di viaggio, eppure da quando sono arrivata, pur essendo rimasti in contatto in maniera molto sporadica, è sempre stato davvero gentile e disponibile. E questa volta non è da meno: “Arrivo a Sydney! Non è che hai qualche metro quadrato dove posso passare la notte?” “Certo! Basta che ti accontenti… la nostra casa è un porto di mare.” Vi pare che mi faccio scoraggiare da una cosa del genere? Soprattutto davanti ai prezzi esorbitanti di Sydney, soprattutto in questo periodo dell’anno (a quanto pare, tutti vogliono essere a Sydney per capodanno). 


Mi faccio dare l’indirizzo e arrivo al porto di mare. Mi accoglie un ragazzo argentino: “Ciao, sono l’amica di Francesco, tu sei il suo coinquilino?” “Sì, sì, prego, entra.” In cucina trovo altre 4 persone, che non mi rivolgono la minima attenzione, come se fosse normalissimo ritrovarsi un’estranea in salotto con borse e valigie. Beh, mi metto sul divano e aspetto, Francesco mi ha detto che sarebbe rientrato tardi dopo aver passato il capodanno fuori città. Nelle ore seguenti c’è un via vai di gente che non vi potete immaginare, fino alla sconvolgente rivelazione: in casa vivono 10 persone. E credo di non averle neanche incontrate tutte.

E continua ad arrivare gente

Intorno alle 9 ecco rientrare Francesco, con tanto di cena thai. Il tempo per lui di posare la valigia, sistemarsi, e iniziamo a chiacchierare delle rispettive esperienze in Italia e in Australia. Chiacchieriamo, chiacchieriamo, che tiriamo forse l’una di notte. Mi pare un’ora più che dignitosa per andare a dormire: la mia camera per stanotte è una specie di sala da pranzo adibita a sgabuzzino, con un tavolo, un caminetto, una mensola per i libri e un frigorifero (con tutta quella gente in casa, non basta certo il frigo in cucina). Stendo a terra un materasso da campeggio, e buonanotte.

Il giorno dopo, con lo spauracchio che la padrona di casa si presenti per un controllo, mi sveglio presto, smonto il letto e mi preparo. Mentre faccio colazione, ricevo una sgradita sorpresa: una mail da The Hostel. L’ostello delle pulci. La mail mi chiede di cancellare le recensioni negative che ho scritto su diversi siti di viaggio. In questi termini: “cease and desist your defaming actions. OR LEGAL ACTION WILL FOLLOW”. Il maiuscolo è loro. Se non cancellerò le recensioni e non firmerò la dichiarazione che mi allegano (in cui mi impegno a non scrivere più nulla del genere), mi denunceranno per diffamazione. Non ci posso credere. Maledetti bastardi. Giusto questo mi mancava. Ancora incredula, chiedo consiglio a Max, che mi suggerisce di ignorarli, probabilmente stanno solo bluffando. Me lo auguro. Passiamo quindi a cose più piacevoli. L’autobus per Canberra parte solo a mezzogiorno, ma questa mattina ho un appuntamento importante: la mia cara amica Luciana! Lei e il suo ragazzo hanno passato il capodanno a Sydney, e prima di concludere il suo anno australiano vuole godersi questi ultimi giorni Downunder. Francesco mi accompagna alla stazione della metro – e non posso fare a meno di apprezzare il quartiere in cui vive, davvero un posto pittoresco, per nulla turistico – ci salutiamo e come di consueto ci auguriamo buona fortuna. Lascio un amico, e ne trovo un’altra. Appuntamento davanti a Woolworth’s, ecco Luciana! L’ultima volta che ci siamo viste è stato a Byron Bay, ricordate? Come al solito siamo di fretta, abbiamo giusto il tempo di raccontarci le ultime settimane mentre andiamo verso la stazione degli autobus, ma è sempre un piacere incontrarla. Oggi però siamo tutte e due un po’ più tristi, chissà quando sarà la prossima volta che ci vedremo. Ci abbracciamo e salto sull’autobus con le lacrime agli occhi. Ora è meglio pensare alla prossima tappa.

Stazione degli autobus di Canberra, attendo Peter. Che si presenta poco dopo, un signore di circa 50 anni vestito in maniera un po’ eccentrica, tipo contabile di inizio secolo (scorso). Come al solito sono molto nervosa quando incontro un nuovo ospite, cerco di capire il più possibile dai minimi dettagli. Lui invece è molto meno discreto, e inizia a bombardarmi di domande, e a ogni mia risposta emette uno strano “Mmm…”. Cerco di fare anche io qualche domanda, ma è molto parco di parole e informazioni. Nel frattempo, guida, guida, fra le colline che circondano la capitale, finché non attraversiamo il confine dell’ACT (Australian Capital Territory) ed entriamo in New South Wales. Ispirata dal paesaggio, gli chiedo se ci sono molti vigneti nella zona, e mi risponde: “Mmm… sì. Ma noi non beviamo alcolici.” Mmm, cominciamo bene. E guida, e guida… alla fine la sua farm non è così distante dalla città, forse 40 minuti, eppure sono sembrati un’eternità. Mi mostra la mia stanza, una camera piuttosto grande ma piuttosto spartana ricavata dal capanno degli attrezzi, e mi porta a conoscere Lynn, la moglie. L’impressione che ho di lei è leggermente migliore, anche se pare una donna un po’ troppo sulle sue, con la testa fra le nuvole. In seguito decido che la signora è succube del marito. Comunque, appena il tempo di riposarmi un attimo, e già Peter mi assegna una missione: aiutarlo a piantare le zucchine. Durante il lavoro iniziamo a parlare per conoscerci meglio, e devo dire che mi pare sì un po’ strambo, ma tutto sommato ok. Ahimè il mio istinto ultimamente fa cilecca.

Il giorno seguente si comincia alle 7.30, e bisogna riparare l’impianto di irrigazione. Peter dà qualche direttiva, poi mi lascia a lavorare con Christine, la figlia minore. Finalmente incontro un membro della famiglia sano di mente! Il lavoro comunque è infame, e per fortuna dopo un po’ vengo indirizzata nell’orto a strappare le erbacce insieme a David: trattasi di ragazzone diciassettenne, figlio del pastore della parrocchia che la coppia frequenta, che lavora qui durante le vacanze di Natale. Il ragazzo è molto amichevole, chiacchieriamo che è un piacere, spettegoliamo sul boss. Gli chiedo che ne pensa: “Beh, non so se l’hai notato. Sono… strani, tutti e due.


Sono proprio loro!

Si vede che gli fischiavano le orecchie, e il boss arriva. Come una furia: “Chi ha calpestato la barbabietola?! Volete fare attenzione? Non è possibile, volete proprio farmi arrabbiare!!” Io così °____° Sono incredula, ma quello continua: “Cercate di parlare di meno e lavorare di più! David, pensavo che fossi un ragazzo sveglio!” e via dicendo, finché non si calma e finalmente se ne va a lavorare in città (dove fa il consulente finanziario per il governo, o qualcosa del genere). “Oggi per fortuna è il mio ultimo giorno. La ragazza che c’era prima di te è stata qui un paio di mesi. Tu quanto ti fermi?” “Circa tre settimane.” “Coraggio, ce la puoi fare!” Mi pare un ottimo inizio.

Ma che dico ottimo… splendido! Secondo i patti, devo lavorare 6 ore al giorno, grosso modo dalle 7.30 alle 13.30. Per qualche motivo, una volta che il pazzo torna dal lavoro nel pomeriggio, mi intercetta e mi dà un nuovo incarico: occuparmi del mulching dei pomodori. In italiano si dice pacciamare. Non vi è d’aiuto, vero? Prima di questo momento non sapevo neanche che esistesse questa parola, capirete quindi che mi trovo un po’ in difficoltà, voglio capire esattamente cosa devo fare, e mi permetto di fargli una domanda. “Devo spargere ‘sta roba solo intorno alle piante, o su tutto il terreno?” Non gli ho chiesto di vendere sua madre, annegare i suoi figli e sventrare il suo cane, giusto? La sua reazione quindi mi pare un filo spropositata: “Vieni a vedere. Dimmi, come ho fatto io il lavoro? COME TI SEMBRA CHE L’ABBIA FATTO? Io ti ho fatto vedere come va fatto, e adesso tu mi chiedi come devi fare? Ti ho dato una dimostrazione, tuttavia mi chiedi cosa devi fare. Mi prendi in giro? Non farmi arrabbiare! Ora torna indietro e rifallo per bene!” Giuro, il vaffanculo era sulla punta della lingua. Invece mi sono trattenuta, mentre in testa mi balenava un pensiero: lascia immediatamente sta gabbia di matti.

Dovete sapere che fra le risposte che avevo ricevuto quando cercavo una nuova farm c’era anche la mail di Ric, un allevatore la cui fattoria sta poco distante da qui. Ric studia italiano, quindi naturalmente quando ha ricevuto la mia mail si è dimostrato ben contento di avere una wwoofer italiana in casa, anche se può accogliermi solo a fine mese. Piano piano si fa strada l’idea di chiedergli di anticipare un po’ l’inizio dei lavori, perché qui non so quanto ci resisto. Per il momento però decido di perseverare, odio lasciare le cose a metà. Oltretutto ho saputo che fra una settimana arriverà un altro wwoofer italiano, quindi se non altro sarò meno sola. 

Però i coinquilini sono simpatici, eh

Perché infatti è questa la cosa peggiore dello stare qui, non tanto il matto, quanto non avere nessuno con cui sparlarne. Sono in fase malinconoia, e trovarmi a vivere insieme a persone del genere non mi aiuta. Inoltre passo tutte le ore in cui non lavoro chiusa in camera, un po’ perché non c’è niente da fare (almeno a Cordalba c’era il paese! Qui non c’è nulla), un po’ per non farmi trovare dal pazzo, che altrimenti mi appioppa altri lavori fuori orario. Quindi, stringo i denti e aspetto almeno quella manciata di giorni, fino all’arrivo del connazionale. Nel frattempo, l’unica cosa che faccio, tutti i giorni per 5-6 ore al giorno, è strappare le erbacce. Pomodori, cipolle, zucche, zucchine, cetrioli, carote… Il pirla ogni sera mi dice: “Mmm, mi ha detto Lynn che oggi hai fatto un buon lavoro con le zucchine…” che ti devo dire, avrò un talento per le erbacce. Ma ti sembra un buon motivo per farmi fare questo lavoro ogni santo giorno?

Domenica, deo gratias, non si lavora. Si offrono di portarmi in città. Lo aveva scritto anche in mail, la domenica pomeriggio puoi goderti le meraviglie della città. Io pensavo a un bel momento tutti insieme – è bello visitare un posto insieme ai locali, no? – invece non fanno altro che parcheggiarmi nella zona dei musei, e mi fanno sapere che torneranno a prendermi alle 5. Beh, meglio soli che male accompagnati. Certo, avrei qualcosa da dire sulle meraviglie della città… Ma sull’argomento tornerò in seguito.

Ora, non so se ho dato idea delle altissime aspettative nei confronti del nuovo arrivo. Si è capito che lo aspetto con ansia? Quindi accolgo il lunedì con un gran sorriso, mi metto a strappare le mie erbacce di buona lena, finché non è l’ora di pranzo. Lynn mi comunica che a breve tornerà Peter con il nuovo ragazzo. Infatti pochi minuti dopo si apre la porta. “Questo è Antonio, starà con noi per pranzo, poi lo riaccompagno in stazione.” Come?! Io penso di aver capito male, muoio dalla voglia di chiedere spiegazioni. Per tutta la durata del pranzo interrogo il nuovo arrivato con lo sguardo, finché finalmente non rimaniamo da soli e gli domando: “WTF???” Quello che mi racconta mi lascia incredula, ma allo stesso tempo mi immagino esattamente come sono andate le cose. “Appena salito in macchina mi ha bombardato di domande… Io che ne sapevo che questo lavora per il governo? Pare uno straccione… E gli ho detto che la mia ragazza lavora in nero in un ristorante. Sai, non vorrei rischiare brutte sorprese…” “Ma hai paura che la denunci? Dai, non credo!” “Beh, mi ha fatto intendere che non è bene che non lavori in regola, potrebbero chiudere il ristorante, potrebbero buttarla fuori dal paese… in auto è sceso il gelo. Non appena siamo arrivati qui, gli ho detto che forse non è il caso che mi fermi, e lui era d’accordo. Meglio andare via.




Immaginate come mi sono sentita non appena l’auto è ripartita? Morte nera che più nera non si può. Ma è un segno: devo scappare da sto posto. La prima cosa che faccio è mandare una mail a Ric, lo studente di italiano, per chiedergli se posso andare da loro il prima possibile. Ric mi fa sapere che possono accogliermi il lunedì successivo. Beh, meglio di niente, ora devo solo pensare come mettergliela giù all’impiastro. Mentre rifletto sul da farsi, arrivano novità in merito alla vicenda di The Hostel. Ricordate che avevo deciso di ignorare le loro minacce, vero? Beh, il loro era proprio un bluff, perché sti infami hanno risposto alla mia recensione su Tripadvisor ringraziandomi per il feedback e scusandosi per l’inconveniente! Io non ho parole…

Ok, archiviato il problema facce di merda, concentriamoci sull’attuale questione: come lasciare questo posto con classe. Che si rivela poi essere un non problema: il giorno seguente, a cena, il pirla con molta nonchalance mi dice che possono ospitarmi solo fino a domenica. Io penso di aver capito male, e chiedo di ripetere 2-3 volte. Gli domando se ci sono problemi. “No, ma settimana prossima avremo qui gente.” Eccerto, e hai bisogno della mia stanza perché li farai dormire nella stalla, vero? Che paraculo! Ma tutti io li trovo in questo periodo? Ma, caro mio, non sei tu che mi licenzi, sono io che me ne vado! “Puoi riportarmi in città venerdì anziché domenica?” Ed è fatta, giovedì sarà il mio ultimo giorno di lavoro. Ho perso fin troppo tempo con 'sta gentaglia. L’ultima sera gli chiedo di riempire il modulo per attestare i giorni per il visto, e lui in cambio mi chiede di compilare il loro guest book. “Ecco, vedi, abbiamo questa usanza, lo facciamo compilare a tutti i wwoofer.” E mo’ che cazzo gli scrivo? Inizio a sfogliare le pagine per scopiazzare un po’, me la cavo con due moine alla cucina della moglie, e mi auguro di non trovare mai più gente simile, falsa come una moneta da 3 €.


E vediamo quanto ho camminato questa volta:

1.010 km

Km totali percorsi: 30.480