venerdì 25 gennaio 2013

Un cuore rosso



Nel programma originale che avevamo stilato per la nostra traversata australiana, Alice Springs si vedeva dedicare ben due giornate piene. Ora, è vero che tale programma riportava la speranzosa scritta “e dintorni” accanto al nome della cittadina, ma pure con tutta la buona volontà sarebbe difficile pensare di trascorrere 48 ore qui, sapendo cosa ti aspetta altrove.

Certo, c’è un KFC, ma per il resto... Comunque, procediamo con ordine! La nostra mattinata si apre all’insegna del “prendiamocela comoda”, cosa peraltro necessaria dopo quasi tre giorni dedicati a macinare chilometri, dopodiché partiamo dimenticandoci attaccato il cavo elettrico e rischiando di sradicare la colonnina.

Mentre Davide rompeva il campeggio, io ho fatto la conoscenza di Maureen, una pimpante signora sessantenne che con il marito Bruce e la ferocissima Miss Emma gira l’Australia a bordo di Moonshine, il loro camper. Da cinque anni! Chiedo se posso visitare la loro casa, e accedo a un’abitazione essenziale e caotica. Maureen sta preparando il ragù per la cena. Ci sono lattine e bottiglie di plastica vuote in ogni dove (10 cent per ogni bottiglia portata in un centro di raccolta), e il bucato appena ritirato è ammassato sul tavolo da pranzo. Hanno anche un TV 32 pollici incastonato sopra al posto dell’autista. Massima stima per il trio.

Hanno anche la piscina

Ma vabbeh, dicevo dei “dintorni”… ed è proprio da lì che iniziamo. Dopo una breve sosta per cercare di sistemare un problemino al camper (addio, pompa dell’acqua) imbocchiamo Larapinta Drive e percorriamo il West MacDonnall Range, un’ampia vallata contornata da speroni rocciosi. Sembra di vedere i segnali di fumo degli indiani sulle creste... La distanza è breve, ma sufficiente per ripiombare nel bel mezzo del nulla, fino alla deviazione per la meta mattutina, il Simpson Gap.

Qui parcheggiamo, interrompendo a quando pare uno scambio di droga e/o armi e/o denaro sporco fra aborigeni dalle facce poco raccomandabili (col senno di poi... stavano sicuramente bevendo birra, la criminalità è una cosa troppo impegnativa). Il gap è una piccola strozzatura fra due montagnone rosse abitate da wallaby dai piedi neri, sul cui fondo permane una piccola pozza d’acqua grazie all’ombra costante. Dal canyon si allontana il letto in secca di un fiume. Tutti i letti dei fiumi sono in secca da queste parti, se vogliamo essere precisi.

Al laghetto del Simpson Gap, scampati alla banda di spacciatori aborigeni

Dopo che Ilaria si è esibita in esercizi di equilibrismo su un albero torniamo al camper e ponderiamo il da farsi: lei è attratta da un posto a una trentina di chilometri, lo Standley Chasm, e il nome sembra promettente (citandola, “pare il nome di una location di Diablo III”).

Nego. Mai detta una cosa del genere.

Proseguiamo verso ovest fino a incrociare il secondo aborigeno operoso incontrato durante il nostro viaggio (la prima è una signora di Alice Springs che ha cercato di venderci una tela dipinta). Questo personaggio ha avuto la bella pensata di far pagare 10 dollari l’accesso a una meraviglia della natura in un paese dove le meraviglie della natura si sprecano e sono tutte gratuite – e noi abbiamo avuto l’ancora più bella pensata di darglieli, questi soldi.

Io voglio precisare che, una volta venuta a sapere del biglietto d’ingresso… io non ci volevo venire, ecco.

Sarà per la carogna di aver “sprecato” 20 dollari (equivalenti a circa 8 lattine di birra, non so se mi spiego!), sarà per il caldo soffocante in mezzo alla gola strettissima, sarà quel che sarà, ma di questo posto io non conservo un gran ricordo. OK, pareti verticali di pietra rossa che ti circondano, ma... dai, chi non si è mai trovato nel mezzo di un canyon rosso scavato dalla furia delle acque in milioni di anni? Roba banale.

Soprattutto nel Red Centre, dove pare non esserci altro.

Ora siamo accaldati, un filo stanchi e sempre con la fissa dei 20 verdoni andati, quindi puntiamo il muso del camper verso est e torniamo ad Alice Springs, dove abbiamo messo in programma una visita alla biblioteca comunale. Pensandoci, queste biblioteche comunali sono un po’ come i porti dove ripararsi dopo la tempesta: luoghi tranquilli, freschi, dove internet è veloce: oasi di pace in un paese difficile.
Se non fosse che lì, ovviamente, il wifi non funziona e quindi l’idea di caricare altre fotografie va a farsi benedire. Ma ho comunque apprezzato la tranquillità e la frescura.

E comunque internet si pagava in quella biblioteca… Che avidità…

Più tardi ci dedichiamo a un bel giro della città, che si rivela priva di qualsiasi attrattiva, allo shopping e alla spesa. 


Le affollate strade del centro di Alice Springs

E poi, visto che c’era il prezzo speciale, torniamo al campeggio della sera precedente, e ci prepariamo per la serata con una poderosa cena, proprio l’ideale nel mezzo del deserto con un caldo che non ti molla un secondo: salsicce e lenticchie in umido, in gran quantità. Bud Spencer e Terence Hill sarebbero stati molto orgogliosi di noi.

Sorprendentemente, la cena leggera non ha conseguenze sul nostro stomaco, e la mattina seguente ci svegliamo freschi e riposati, pronti per avviare di nuovo il camper e intraprendere la tappa che ci condurrà fino ad Ayers Rock. Si punta a sud, si sbaglia strada, si passa accanto ai Flying Doctors all’aeroporto di Alice Springs e poi si ritrova l’ormai famigliare Stuart, mentre Ilaria si mette al lavoro sul blog sul sedile del passeggero.

I chilometri da percorrere non sono molti, circa 440, ma a un centinaio di chilometri da Alice Springs è prevista una deviazione alla Henbury Meteorites Conservation Reserve, vale a dire un posto dove più o meno 4.500 anni fa sono caduti dei grossi sassi dal cielo, creando grande scompiglio e fermento fra le popolazioni aborigene locali (“Hai visto?” “Sì, è caduto qualcosa dal cielo.” “Chissà cos’era.” “Boh. Passami una birra.”).

Come credo di aver già detto il nostro mezzo è coperto da assicurazione soltanto su strade sealed (asfaltate eh, non ricoperte da pelli di foca): per raggiungere questi crateri bisogna però percorrere per 12 km la Ernest Giles Road e poi una stradina laterale per altri 5 km. E la Ernest Giles è una pista in terra rossa battuta larga 30 metri che si addentra dritta nel nulla.

Visto che è dalla prima volta che ho visto una pista del genere che sogno di percorrerla, questa è l’occasione giusta, anche perché non è che sia poi così sconnessa: si procede a 20-30 km/h e il camperino sobbalza un po’, ma per il resto è un’autentica meraviglia, ci si allontana in una pianura sconfinata, delimitata qua e là da costoni rocciosi, senza nulla a ostacolare la vista per centinaia di chilometri.

Zigzagando per evitare qualche buca e sopravvivendo al nuvolone di polvere lasciato dall’unico 4x4 che ci ha superato arriviamo infine ai crateri, dove una volta spento il motore restiamo affascinati. Ci troviamo davvero nel cuore rosso dell’Australia, lontano da ogni cosa. Raggiungiamo il ciglio dei crateri e osserviamo questi buchi causati da meteoriti neanche tanto vecchi, immaginando come deve’essere stato vederli cadere dal cielo. Si gira tutto intorno, sperando magari di vedere qualche animale (secondo i cartelli informativi dovremmo inciampare in bestie di vario tipo a ogni passo, ma devo dire che l’Australia centrale mi è sembrata quasi del tutto priva di forme di vita), sempre correndo con gli occhi a una linea dell’orizzonte lontana lontana.


Terreno sforacchiato

Il tempo passa e il caldo morde, per cui dopo aver raccolto un sasso da portare a casa come ricordo del luogo più isolato dove io mi sia mai trovato torniamo al Toyota Hiace e ripercorriamo al contrario la stupenda distesa rossa della strada, fermandoci per fare una capatina a un piccolo lago situato nel bel mezzo del niente. Quando torniamo sulla Stuart, che lì non è altro che una striscia d’asfalto con 100 km per lato prima di trovare qualcosa di umano, mi sembra di essere in tangenziale, tanto è stridente il contrasto con la terra, i sassi e le corrugazioni di sabbia che abbiamo appena lasciato.

Un’oretta dopo raggiungiamo la Erldunda Station e la sua echidna gigante. Da lì parte la Lasseter Highway che, dopo 240 km circa, ci condurrà a Yulara, il resort base per le visite al parco nazionale di Ayers Rock. In questo tragitto facciamo giusto in tempo a vedere di sfuggita una roadhouse gestita da aborigeni (piena di cartelli ospitali come “Niente benzina” “Niente informazioni” “Questa casa non è un albergo”) e un’altra dove l’ospitalità viene definita “leggendaria” dalla guida. Il tipo è simpatico, ma di leggendario c’è solo il prezzo della birra, 23 dollari per un 6-pack. E il bello (bello?) è che vedremo anche di peggio.

Ora, dato che non l’ha detto ancora nessuno, lo dico io: ma quanto sei fissato con la birra???

Poco più avanti il terreno diventa molto più sabbioso e di un rosso ancora più intenso, offrendoci panorami veramente marziani (d’altronde da queste parti vengono a fare training pure gli astronauti della NASA), mentre sullo sfondo incombe l’imponente Mount Conner, che sembra a portata di mano e invece è almeno a una ventina di chilometri di distanza.

Ilaria apre la filiale marziana di Banca Mediolanum

Un ultimo tratto di strada ed ecco che, in lontananza, compare l’inconfondibile sagoma di Ayers Rock, mentre raggiungiamo il campeggio, situato all’interno del resort. Qui un po’ di gente si incontra, nonostante siamo in bassa stagione – mi immagino durante l’alta stagione sia un bordello, anche se in fondo la roccia viene visitata da circa 400.000 persone l’anno, che non è che sia poi questa grande cifra.

La serata, oltre a un refrigerante bagno in piscina, ci vede impegnati nella preparazione di una spettacolare carbonara (stavolta pure con la pancetta a cubetti!) e nella caccia ai Like su Facebook. La foto della carbonara con Ilaria che sembra sbucare dall’oscurità riscuote grandissimo successo e ho stampata nella mente l’immagine di lei che corre a recuperare le stoviglie – sotto la consueta tempesta serale che ci perseguita – voltandosi verso di me e urlando “Abbiamo un Likeeeee!

Che posso dire…giorni e giorni passati nel deserto mi hanno resa più sensibile anche al minimo contatto umano. Anche tramite Facebook.

Rimane solo il tempo per la visione de "Il buono, il brutto, il cattivo" - quindi parecchio tempo, a ben pensarci. Film grandioso! Ricordatevelo sempre: "Quando si spara, si spara, non si parla."

Vi sfido a contraddirlo

E quando si guida?

440 km


Km totali: 26.059

venerdì 18 gennaio 2013

Pipistrelli, palle giganti e alieni



Nuovo episodio della traversata del continente! Quali incredibili avventure ci aspettano?

La mattina seguente si apre con la prospettiva di iniziare a muoversi verso sud, una tappa di tre giorni che si concluderà in quel di Alice Springs. Il tempo si è rimesso al bello e ci concediamo un’abbondante colazione, dopo aver imparato nuovi e creativi modi per bruciare, storpiare e umiliare i pancake (più tardi quella stessa mattina abbiamo ricevuto una diffida ufficiale dall’Associazione Amici del Pancake, da oggi in poi li dovremo comprare già pronti).

Si carica il camper, ormai con una certa maestria, e si parte, salutando prima Cooinda e, dopo una cinquantina di chilometri, l’intero parco di Kakadu. Che luogo magico! Abbiamo visto un sacco di cose ma altrettante sono rimaste da scoprire, dalle Jim Jim Falls alle lunghe camminate nel bush. Sarebbe quasi da tornarci in inverno!

Ma non divaghiamo. Ilaria procede sicura al volante. Ormai abbiamo definito i ruoli: lei è l’autista del mattino, quando può aggredire la strada e investire tutto ciò che incontra. Lei sfreccia al mattino, dicevo, mentre io subentro nel pomeriggio per portare pigramente il mezzo a destinazione. Un po’ Alonso-Massa, per ribadire la metafora ferrarista. Comunque, dopo circa 200 chilometri di paesaggi cangianti, che ci vedono fra l’altro superare la soglia dei primi 1.000 percorsi, torniamo sulla Stuart Highway nei pressi del paesino di Pine Creek.

In teoria dovremmo tirare dritto, ma si decide sul momento per una visita e la cosa ci premia con un luogo piuttosto affascinante, pieno di vestigia della corsa all’oro: binari della ferrovia abbandonati, vecchie locomotive ed enormi macchinari industriali arrugginiti, tutti provenienti dalla vecchia Inghilterra o dalla Scozia. Visto che si è quasi fatta l’una, facciamo un’ulteriore sosta al Lazy Lizard, il pub del paese, dove fra cameriere tutte inquietantemente bionde (avete presente “I bambini venuti dal Brasile”, sì?), selle, teschi e cappellacci consumiamo un lauto pasto a base di hamburger.

La cosa più vecchia in tutta l'Australia. La cosa a sinistra, intendo.
Una novantina di chilometri più a sud si trova l’ultima “città” prima di Alice Springs, vale a dire Katherine, dove hanno deciso di trascorrere la propria vita circa 9.000 persone, per motivi che francamente non riusciamo a comprendere. Il posto è piccolo ma si può trovare di tutto, per cui riforniamo la dispensa in vista delle future grigliate, compriamo un po’ di birra e facciamo un giretto sulla main street. Katherine è una città dove la popolazione aborigena raggiunge percentuali superiori al 50% (e infatti la guida australiana ricorda che è spesso agli onori della cronaca per problemi legati ad alcolismo e violenza). Noi non riusciamo proprio a comprendere come la maggioranza degli esponenti di questo popolo sia composta da individui così evidentemente allo sbando... il mistero è davvero grande.

Lasciatemi puntualizzare che per noi 9.000 abitanti sono 4 gatti, ma per gli standard australiani è una città di dimensioni ragguardevoli!

Teoricamente avremmo già raggiunto la destinazione odierna, ma visto che rimangono un paio di ore di sole e visto che Katherine non ci offre nulla decidiamo di percorrere un altro centinaio di chilometri della Stuart, fino a Mataranka. Qui troviamo un campeggio davvero particolare, nel senso che al suo interno vivono decine di canguri tascabili che sfrecciano ai margini del nostro campo visivo mentre ci occupiamo delle faccende serali. Ma che carini che sono, sembrano delle caprette, si appoggiano sulle zampette anteriori quando avanzano piano e poi via, balzellon balzelloni, quando hanno deciso che ti sei avvicinato troppo.

Cangurino che ci dà il buongiorno

Io però sti canguri a volte li trovo un po’ inquietanti… vanno in fissa, non ti perdono d’occhio un momento e sembrano essere lì lì per attaccarti senza preavviso, in massa. E meno male che sono paciosi erbivori…

La mattinata seguente, dopo un fallito tentativo di collegamento intercontinentale con Vanzago, in occasione della presentazione del calendario bandistico 2013 orchestrato da Ilaria, ci regala una doppia immersione: la prima è quella nella spettacolare pozza termale delle Mataranka Pools, dove si resta a mollo un bel po’, la seconda è quella in un tratto di foresta letteralmente infestato dalle volpi volanti (che dette così sembrano carine, ma in realtà sono pipistrelli, bleargh). Il refrigerio mattutino è necessario perché oggi la strada è lunga.

Hai tralasciato la parte più buffa della faccenda: mentre percorriamo il sentiero che si snoda nella foresta e arriva alla piscina, sentiamo strani rumori intermittenti e di tanto in tanto scrosci d’acqua cadono a terra. Ci vuole un po’ per capire di che si tratta: enormi spruzzatori, alti forse una decina di metri (non sono molto brava a stimare pesi e misure) che girano su se stessi lanciando getti d’acqua. E perché mai? Ma per tenere lontani i pipistrelli! Ma mentre avanziamo sul sentiero, cercando di schivare le pisciatine – sembra di stare in un videogiuoco – ci rendiamo conto che i pipistrelli se ne sbattono altamente di questo accorgimento.

La prima, veloce tappa è all’orribile roadhouse dedicata alla Pantera Rosa – tutto questo kitsch in mezzo al deserto è di una bruttezza notevole. A seguire una veloce sosta a Daly Waters, dove oltre a un vecchio aeroporto si trova un pub decisamente più carino, tappezzato di biglietti da visita e amenità varie: anche noi andiamo ad arricchire la collezione, mentre sul portico fuori dal locale, in un calore allucinante, un paio di aussie si godono le loro birre ghiacciate.

Il pub più famoso della Stuart Highway

Di fronte a loro, un cartello indica dove potete trovare il McDonald’s più vicino.

A soli 286 km

A proposito di birra, voglio sfatare un mito, quello che Ilaria beva da mattino a sera: è tutto falso! Persona estremamente morigerata, Swaggirl in realtà beve pochissimo: figuratevi che bevo più birra io di lei, il che è tutto dire. Della serie: non credete alle leggende metropolitane.

Io non so chi è che sparge certe voci sul mio conto…

Ripresa la marcia puntiamo sempre verso sud, attraversando distese affascinanti dove il panorama cambia di minuto in minuto, e a volte è persino radicalmente diverso a seconda del lato della strada. Le uniche costanti sono gli spazi infiniti e il colore rosso della terra (dovuto al fatto che l’acqua contenuta nel terreno, evaporando, porta in superficie ferro e manganese. Sapevatelo!).

Una deviazione di qualche chilometro dalla Stuart Highway ci porta a Newcastle Waters, città fantasma abbandonata dopo la solita corsa all’oro locale, mentre la tappa seguente è la roadhouse di Renner Springs, dove per convenzione finisce il Top End caldo e umido (ovvero il Northern Territory settentrionale) e inizia il Red Centre caldo e secco. La parola “caldo” permane, come avrete notato.

Siamo ormai a 666 km da Alice Springs e stiamo per raggiungere la meta odierna, Tennant Creek, dopo aver superato Three Ways, il punto in cui dalla Stuart parte la strada che porta nel Queensland, centinaia di chilometri più a est. Tennant Creek ha 3.800 abitanti, e guardandoli capisco che i 9.000 di Katherine hanno fatto bene a stabilirsi là. Avrebbe potuto andargli molto peggio, avrebbero potuto ritrovarsi qui.

Desolazione totale, l’unica cosa che si salva è la piscina del campeggio, che complice un acquazzone pomeridiano è bella fresca (pure troppo per Ilaria, che manco entra).
Il mattino seguente sghignazziamo mentre leggiamo su un cartello “Thank you for visiting Tennant Creek, come back soon”. Aspettateci, eh. Chiamiamo noi.

Anche oggi si viaggia, ma dopo soli cento chilometri, e dopo il cippo dei 2.000 km percorsi, arriviamo in un altro di quei posti che puoi trovare solo qui, vale a dire il luogo dove la natura si è divertita a creare le Devil’s Marbles.

Che cosa sono, direte voi? Enormi palle di pietra, rispondo io – e fin qui niente di eccezionale. Solo che queste palle di pietra sono appoggiate in bilico sopra altre palle di pietra, andando a creare improbabili costruzioni che ora sembrano la casa dei Barbapapà e ora sembrano sfidare le leggi della fisica. I sentierini le percorrono in lungo e in largo e ancora una volta, grazie alla bassa stagione, siamo soli in mezzo a questa meraviglia (che, con grande disappunto di Ilaria, non è compresa nell’elenco del patrimonio UNESCO).

Per chi non lo sapesse, uno dei miei scopi nella vita è visitare tutte le meraviglie UNESCO. Qui in Australia le ho quasi viste tutte!

Le palle del diavolo in tutta la loro gloria

Oltre alle pallone ci sono altre cose interessanti: pezzi di un pickup arrugginito, arrivato chissà come in mezzo alle rocce e sforacchiato da un sacco di proiettili, e lo scheletro rinsecchito di una mucca (o di un alieno, siamo ancora indecisi al riguardo). Studiamo per un po’ le ossa e decidiamo persino di portarcene via un paio come souvenir, sperando di non attirarci addosso qualche strana maledizione aborigena.

Qui abbiamo appena finito di fare colazione
 
Infine, per quanto il posto sia magico, il caldo e la sete vincono a mani basse, e si torna al camper.

Ma il prossimo tratto di strada è breve però, perché ora bisogna fare attenzione, procediamo piano e scrutiamo preoccupati il cielo. Perché, direte voi? Ma perché siamo vicini alla Wycliffe Well Service Station! E allora, direte voi? Come, allora?! Wycliffe Well è la famosissima “UFO Capital of Australia”. Vabbè, togliete il famosissima, ma il resto è vero, almeno secondo loro.

Arredamento a tema, pupazzetti e magliette, un sacco di articoli appesi alle pareti (“Ufo a forma di melograno vaporizza turista tedesco” – giuro) e un ottimo hamburger. Sembra di essere finiti in mezzo a una puntata di X-Files, e a guardarsi attorno, immaginandosi magari queste distese di nulla nel cuore della notte, non sembra così improbabile che qualche alieno scavezzacollo venga da queste parti a fare le penne con la sua motonavetta spaziale.

Alieni poco credibili e italiani in visita
Il paesaggio intanto va facendosi sempre più brullo: gli alberi si diradano, arrivano a tratti a sparire, e lo sguardo può spaziare a 360 gradi sull’orizzonte, ma l’attenzione è sempre alta perché ogni tanto qualche mucca si diverte a camminare esattamente sulla linea della mezzeria. I chilometri che ci separano da Alice Springs scendono: 300, 200, 100. Arriva il primo temporale che ci investe per un breve tratto di strada, per poi regalare un bel doppio arcobaleno. E alla fine avvistiamo il cartello che ci dà il benvenuto ad Alice Springs, la città in mezzo al nulla, il cuore del Red Centre.

Sì, va bene, la vediamo domani: per adesso ci interessa di più il campeggio, la cena alla taverna annessa con tris di carni e una tranquilla serata di relax, disturbata solo dal passaggio del vecchietto che controlla se abbiamo pagato i 20 dollari dovuti. Fino all’ultimo centesimo, maledetto vecchiaccio!

E siamo arrivati anche ad Alice Springs. Quanta strada... ma ne sarà valsa la pena? Stay tuned!

1.490 km, e siamo quasi a metà alfabeto


Km totali percorsi: 25.619

lunedì 14 gennaio 2013

Mr Crocodile



Quante meraviglie nel parco di Kakadu! Quindi non perdiamo tempo, e passiamo subito la parola a Davide!

Al mattino presto è l’ora della mia solita passeggiata solitaria per il campeggio. Solitaria per i primi dieci metri, perché poi un’allegra, piccola mosca viene a farmi compagnia. Siccome le sto simpatico, chiama le sue due sorelle. Che passano la parola alle cugine. Che, già che ci sono, invitano le vicine di casa e delle amiche in visita per il weekend. Dov’è il repellenteee? Ci sono oltre 1.000 specie di mosche, da queste parti, tutte fermamente decise a rompervi l’anima.

Dopo colazione ci rendiamo finalmente conto di essere a Kakadu, una delle mete naturalistiche più famose al mondo! Per capire cosa fare, raggiungiamo subito il visitor centre, dove il Ranger Smith ci istruisce sui luoghi da visitare e sulle passeggiate da fare: Ubirr, Alligator River, Nourlangie... si prospetta una giornata piena! E meno male che abbiamo riempito tutte le nostre 24 bottiglie d’acqua da 60 cl (24, ricordate questo numero).

La prima tappa ci conduce verso nord per una quarantina di chilometri, in direzione del sito di arte aborigena di Ubirr, dell’East Alligator River e del Cahill Crossing. La strada si snoda in un paesaggio spettacolare, dal quale all’improvviso sbucano strane formazioni rocciose sedimentarie, che fanno un po’ Far West e un po’ India. Avvolti da una cappa di caldo soffocante, ci incamminiamo in un jungle walk sulle sponde del fiume, dove non fa capolino neppure un coccodrillo per ora (il tipo che ha scoperto l’Alligator River l’ha chiamato così pensando di aver visto alligatori e non coccodrilli... e l’errore è rimasto nel nome). 

Il Cahill Crossing sull'East Alligator River

In compenso ci sono tanti pipistrelloni sopra di noi e un luogo “sacro” riservato alle donne, dove io non potrei entrare. Ilaria però mi dà il permesso: nel caso, sig.ra divinità aborigena, la colpa è sua.

Appena più a nord di questo luogo si trova Ubirr (bel nome), dove parecchi giovinastri aborigeni dei millenni passati si sono divertiti a rovinare le pareti rocciose verniciate di fresco disegnandoci sopra la qualunque. Scherzi a parte i graffiti sono interessanti e i pannelli informativi esaurienti, ma quello che resterà per sempre impresso nella mia mente è il panorama che si gode dalla sommità di uno sperone roccioso: ai nostri piedi si estende verso nord una sconfinata savana, punteggiata da pozze d’acqua e, all’orizzonte, da una fitta foresta. Alle nostre spalle, una vallata piena di alberi viene chiusa da lontani pendii rossastri, creando quello che sembra essere uno scorcio della Terra com’era ai tempi dei dinosauri.

In cima all'Ubirr Lookout, dove lo spazio è senza confini
Dopo alcuni minuti di contemplazione riscendiamo il sentiero roccioso e iniziamo la marcia di ritorno verso Jabiru, visto che è ora di pranzo. Questa cittadina, l’unica nel raggio di 250 chilometri come ho già detto, è piuttosto desolata e, soprattutto, assolutamente immobile nel caldo delle 2 del pomeriggio. Gli aborigeni qui sono un po’ più attivi di quelli visti a Darwin (dopotutto Kakadu è casa loro e sono direttamente coinvolti nella gestione del parco), ma mantengono un elemento di fondo che li fa sembrare “strani”, perfette comparse in un film di zombi. Jabiru è soltanto una tappa veloce, comunque: un (pessimo) hamburger, un giro al supermercato e poi via, verso sud.

La destinazione, ad altri 40 chilometri di distanza, è Nourlangie, che ci accoglie con una spettacolare formazione rocciosa alta circa 200 metri che torreggia su di noi. Dopo aver letto l’immancabile introduzione di Bill Neidjie, un aborigeno che scrive in modo sgrammaticato ma è uno dei padroni delle terre del parco, ci incamminiamo in un silenzio surreale (rumori di animali a parte). Siamo nel cuore della bassissima stagione, in giro non c’è quasi nessuno e in questo momento siamo quasi sicuramente gli unici due esseri umani nel raggio di una ventina di chilometri.

Altra arte aborigena (ragazzacci: pure i disegni sconci!) e un’arrampicata su e giù per i roccioni, con panorami che compaiono all’improvviso e ti sembra di ritrovarti sull’isola di Lost. Altra cosa che compare all’improvviso è un simpatico serpente, che attraversa il sentiero a un paio di metri da noi, fermandosi giusto nel mezzo per permetterci di ammirarlo al meglio. Non credo sia velenoso (non mortale, almeno), visto che era tutto verde e qui quelli pericolosi pare siano marroni: comunque meglio non approfondire e lasciarlo andare per la sua strada, mentre noi completiamo la camminata tornando verso il parcheggio.

Ecco un esempio di arte aborigena

Ora ci aspetta l’ultima tappa della giornata. Siamo a Kakadu, terra dei coccodrilli, e ancora non ne abbiamo visto uno: direi che è semplicemente intollerabile. Per questo scelgo di percorrere la Anbangbang Billabong Walk, un itinerario circolare che si snoda attorno a un lago dove i coccodrilli sono così numerosi che sui cartelli non c’è scritto “attenzione”, ma “troppo tardi”.
Non nascondo il fatto che l’idea che magari a pochi metri da noi ci sia una creatura in grado di farci fuori senza troppi problemi è strana, decisamente inusuale per un europeo. Si procede guardinghi, in fila indiana, lontani dall’erba alta e controllando ogni passo manco fossimo dei marine in esplorazione nel delta del Mekong.

Il lago (ancora poco più che una pozza, la “stagione umida” finora è stata insolitamente secca da queste parti) è meraviglioso, popolato da ogni genere di uccelli, e sulle sue rive saltellano piccoli wallaby e canguri, piccoli pure loro peraltro. Siamo molto stanchi, le soste per bere sono frequenti e la soglia dell’attenzione è sempre alta, anche perché la luce diurna ha ormai lasciato il posto a quella serale. Altri canguri e un tronco che sembra un coccodrillo con la bocca spalancata, ma nulla più: purtroppo (dico io) o per fortuna (dice Ilaria) manco qui abbiamo visto il nostro primo rettilone.

Non si direbbe, ma questo luogo ameno è pieno di insidie

Cotti dal sole e dalle camminate riguadagniamo il camper e raggiungiamo in una mezzoretta Cooinda, la tappa odierna. Dopo aver salvato una tedesca smarrita in campeggio (che vince il premio Mrs. Ansia 2012 – memorabile il mio “Be quiet!” con cui la zittisco involontariamente), è il momento di un altro tuffo in piscina e di una bella razione di pasta. La stanchezza presenta il conto e le zanzare sono fin troppo insistenti, per cui ancor prima della mezzanotte arriva l’ora di ritirarsi nel camper (bollente, accidenti a lui), mentre sopra di noi splende Orione. Orione... Con che fa rima Orione?

Quasi dimenticavo... delle 24 bottiglie d’acqua mattutine, alla conta serale ne sopravvivono 4. Fanno 12 litri d’acqua consumati in due, senza contare le numerose soste a tutte le fontanelle incontrate!

Anche la giornata seguente sarà improntata al segno dell’acqua. Per iniziare perché oltre alla nuotatina serale aggiungiamo anche quella mattutina, preludio all’abbondante colazione. Prima di ogni altra cosa però prenoto la crociera al tramonsto sullo Yellow River. Poi mi faccio quattro chiacchiere con il Ranger Smith locale, che mi informa che la passeggiata da lì al fiume è chiusa per pericolo coccodrilli (e una parte di me non gli crede, vista la penuria di rettili del giorno precedente). Decidiamo quindi di andarcene a qualche chilometro da lì, in uno dei tanti billabong che punteggiano la zona.

E qui, meraviglia delle meraviglie, Ilaria riesce a vedere occhi e narici di un coccodrillo, che subito dopo si inabissa per non riapparire più (quelle bestiacce possono restare sott’acqua per più di un’ora, senza respirare). Tempus fugit e caldus picchiat, per cui torniamo dalle parti di Cooinda che è già quasi ora di pranzo, dico quasi perché prima ci si tuffa di nuovo in piscina, dove l’acqua è così rovente che diventiamo bolliti e, visto il sole a picco, riusciamo pure a rimediare una leggera scottatura.

Fra una cosa e l’altra si avvicina l’ora del giro in barca, così mettiamo qualcosa sotto i denti e saltiamo sul pullmino che ci condurrà all’imbarcadero, guidato da uno spilungone vissuto per sette anni con gli aborigeni che sarà anche il capitano del nostro barcone. Eccoci sistemati a bordo, dove fra l’altro ci sono anche altri tre italiani. Si parte!

Ora, purtroppo le mie parole non potranno mai descrivere neppure la metà della bellezza della crociera sullo Yellow River. Un acquazzone improvviso. Un coccodrillo che compie un balzo per afferrare al volo un uccello, fallendo. Minuscoli uccelli dai colori sgargianti che ci osservano dai rami degli alberi. Il Jesus Bird con le sue lunghe zampette che cammina sulle ninfee. Coccodrilli stesi a riva, a respirare con la bocca aperta o a sgranocchiare un pesce, su uno sfondo delle più diverse tonalità di verde e accompagnati dai rumori di cento animali, che si fanno assordanti quando il pilota spegne il motore e lascia che sia la corrente a trascinare in silenzio la barca.

Ilaria e un coccodrillo insieme in una foto non li vedrete tanto spesso

La chiatta segue le anse del fiume, facendosi strada fra infinite meraviglie. I coccodrilli esistono davvero, è ufficiale, e qui sembra quasi di poterli toccare: per lo più si fanno i fatti loro, ma ogni tanto si avvicinano e guardano il barcone, si immergono e ci passano sotto, lasciando una scia di bollicine. Poi incrociamo il boss di questo tratto di fiume, un bestione lungo quasi cinque metri che nuota tranquillo a pelo d’acqua, con la tipica aria del ras del quartiere, per nulla intimidito dalla nostra presenza. Ecco, forse è questo quello che intimorisce di più di questi dinosauri: quando li guardi sembrano dirti “Me ne sbatto di te, mica ho paura. Sei tu che dovresti averne.”

Pigro e letale

Cala la sera e i rettili si fanno più attivi, ora ne vediamo a decine. I colori del cielo diventano spettacolari, complici i nuvoloni dell’acquazzone, e arriva il momento di tornare all’imbarcadero. Non mi ero mai sentito così “immerso” nella natura in tutta la mia vita, è stata veramente un’esperienza incredibile. Altre volte, per esempio in alta montagna, mi ero sentito “solo”, isolato, ma qui è diverso, sei isolato ma non sei solo con te stesso, sei in compagnia di un sacco di animali e animaletti, che ti fanno capire che sei un intruso dalle loro parti.

Ancora con i coccodrilli in mente ci immergiamo nella vasca idromassaggio della piscina (si sarà capito che le piscine sono ormai una costante delle nostre giornate – anzi ho deciso che quando avrò la mia megavilla ne vorrò almeno un paio). Pasta al pesto reloaded e film serale ci accompagnano verso la conclusione della giornata, mentre una grossa tempesta ci inonda di lampi per poi schivarci abilmente quando si tratta di versare a terra un po’ di pioggia. Iniziano i rumori della notte e noi si va a letto.

E grazie Davide per il resoconto puntuale e colorato! Certo, potevi risparmiarmi gli attimi di terrore intorno al billabong dei coccodrilli... Ma anche questa volta siamo sopravvissuti! E siamo pronti e pimpanti per un'altra avventura, prossimamente sui vostri PC!