mercoledì 29 agosto 2012

Surfin' in the Byron Bay


Neanche in un milione di anni mi sarei mai aspettata che mi accadesse ciò che è successo nel mio primo weekend australiano.
Ellamadonna, cosa ti è successo? Si staranno chiedendo in tanti. (Cioè, in tanti… i miei 13 lettori se lo staranno chiedendo! A proposito, tutti gli altri: correte a cliccare qui a destra!)

Allora, sono arrivata mercoledì in Australia, OK? E non appena poso piede su suolo australiano, metto il mio bel post sulla bacheca di FB per far morire di invidia tutti i miei amici. Poco più di 24 ore dopo, ricevo il seguente messaggio: “Anche tu in Australia?” State ancora cercando di vincere il jet lag, siete sopravvissuti a numerosi attraversamenti pedonali (pericolosissimi, essendo voi avvezzi a guardare dalla parte sbagliata della strada), dovete venire a patti con l’accento locale. E ricevete un messaggio come se fosse sabato pomeriggio e vi chiedono se la sera vi va di andare al cinema a Cerro Maggiore. E scusate se è poco. Aggiungiamo poi che il messaggio arriva da questa amica, che chiamerò Bellapasta, che non vedevo da forse 14 anni. E non solo si trova anche lei in Australia (superficie: 7.617.930 km²), ma attualmente vive a Byron Bay… 165 km a sud di Brisbane! Uno sputo non solo in termini australiani, ma addirittura brianzoli!
Cioè. Ci rendiamo conto? Rendiamoci conto. In quattro e quattr’otto (in un posto così grande, per forza di cose bisogna agire in fretta) ci scambiamo i numeri di telefono, ci sentiamo ed è fatta! Sabato si va a Byron Bay!

Mentre sono sul bus, due parole su Bellapasta. Ci siamo conosciute all’età di 15 anni durante una vacanza studio a Londra (santo cielo, la prima volta che presi l’aereo), abbiamo passato un'estate spassosissima, ma poi per qualche motivo ci siamo perse, come può capitare nella vita. Forse ci siamo riviste un paio di volte in seguito, ma poi più nulla, fino all’avvento di Facebook, che ci ha fatto recuperare i contatti, ma sempre in maniera occasionale. Ma per fortuna che c’è Facebook!

Fine della storia. E anche del viaggio, il pullmino in due ore mi porta a destinazione. Scendo un po’ disorientata e mi trovo circondata da altri viaggiatori che presto svaniscono, ognuno verso la propria meta. Io sto lì ad aspettare che qualcuno mi raccolga e studio il posto in cui sono arrivata. Un sacco di backpacker, gente in costume e infradito che vaga per le strade (e ricordiamo che siamo sul finire dell’inverno), skater, surfisti che si muovono su uno sfondo di negozi fricchettoni, agenzie di viaggi, fast food, gelaterie… la classica località turistica. La mia prima località turistica australiana! Alcuni dicono addirittura che sia una delle più belle del paese. E io ci sono finita dopo neanche una settimana.

Vabbè, ma dov’è Bellapasta? Continuo a scrutare da un lato all’altro della strada principale, strizzando gli occhi contro un sole devo dire cattivo. Eccola laggiù! Ci corriamo incontro, baci e abbracci, e constatiamo che in tutti questo tempo non siamo cambiate poi molto. E quasi all’unisono: “Assurdo! Trovarti qui in Australia!!!
Ci spostiamo verso l’ostello dove vive da un mese con il suo fidanzato, che chiamerò Night Watcher, e passiamo le quattro ore seguenti a recuperare 14 anni, interrompendo di tanto in tanto il flusso del racconto esclamando: “Assurdo! Trovarti qui in Australia!!!”. Gli studi, le esperienze di lavoro, le conoscenze comuni, e soprattutto quelle tre settimane londinesi, remote ma indimenticabili. Per arrivare al presente: anche Bellapasta e Night Watcher hanno deciso di prendersi una pausa dall’Italian Way of Life e sono arrivati in Australia all’inizio dell’anno, hanno vissuto per diverso tempo a Melbourne barcamenandosi nei lavori più diversi, hanno sperimentato il leggendario lavoro nelle farm (necessario per rinnovare il visto) e hanno quindi deciso di muoversi verso nord, fermandosi a Byron Bay un paio di mesi. “Qui la vita può cambiare nel giro di mezz’ora” mi spiega “noi cercavamo un posto per dormire un paio di giorni, e adesso siamo qui da un mese. L’ostello ci offre l’alloggio in cambio di qualche ora di lavoro.” E che lavoro! Bellapasta va a recuperare i turisti che arrivano in città alla fermata dell’autobus, mentre Night Watcher, come si evince dal nome, è il tutore dell’ordine dell’ostello nelle ore notturne. Fra parentesi: non uso i loro veri nomi non perché mi abbiano chiesto l’anonimato, è solo che mi diverto un sacco a usare i soprannomi.

Quindi, una chiacchiera dopo l’altra, si avvicina l’ora di pranzo, che prepariamo nella cucina dell’ostello (davvero attrezzata, non c’è che dire), dunque ci spostiamo tutti e tre in spiaggia. Allora è questo l’oceano Pacifico… Impressionante! Acqua a perdita d’occhio, e spiagge che sembrano piste d’atterraggio. Ripenso all’ultima volta che sono stata al mare in Italia: Pietra Ligure. Non dirò altro.


Qualche matto fa il bagno, un mucchio di ragazzi giocano a rugby (o football, o AFL, di cui spero di raccontarvi presto), le famiglie fanno pic nic. Sul prato appena prima della spiaggia degli ascoltatori estremamente rilassati ascoltano un tipo che si esibisce al sitar. Ma non è l’unica musica che sentiamo: Night Watcher mi fa notare che, strusciando i piedi nudi sulla sabbia, si produce un rumore curioso, una sorta di gnic gnic gnic curiosissimo e divertente. Chiacchieriamo ancora un po’ (abbiamo parlato così tanto durante il weekend che credo di essermi abbronzata la lingua), ma è ancora presto quando decidiamo di lasciare la spiaggia: saranno solo le 4 del pomeriggio, che inizia a fare freschino. In effetti la luce durante il giorno mi spiazza un po’ da queste parti del mondo, mi fa notare Bellapasta che alle 10 c’è un sole molto intenso, come da noi a mezzogiorno, ma già a metà pomeriggio appena si diffonde una luce serale, e alle 6 tanti saluti, il sole va giù (e, credeteci o no, inizia a fare freschino).

Ci rimettiamo in cammino per le strade di Byron Bay e avvistiamo The Happy Coach, un pullmino che fa la spola tra il paese e Nimbin, villaggio fricchettone che basa la sua economia sulla ganja, a quanto ho capito. Ma a questo giro non l’ho visitato.

Ma sono contenta lo stesso!
In ostello troviamo il tempo per chiacchierare ancora un po’, poi Night Watcher mette fretta a noi fanciulle affinché andiamo a prepararci per la serata: cena a 5 $ al pub Cheeky Monkey con birra aggratis, seguito dalla Ladies’ Night. Sounds good.
Per farla breve, l’hamburger non era male, la birra gratis sempre ben accetta, la Ladies’ Night l’ho trovata divertente ma un po’ di dubbio gusto (la clientela maschile era invitata a partecipare a una gara di spogliarello, davanti a una malcapitata futura sposa le cui amiche probabilmente non potevano permettersi uno spogliarellista professionista). Ora delle 10 di sera ne avevamo abbastanza del locale, ci siamo spostati verso un altro pub, quindi di nuovo all’ostello, dove siamo rimasti su a chiacchierare ancora un po’ con il guardiano notturno di turno, quindi abbiamo salutato, e ognuno in camera sua. A proposito, non vi ho mai detto che ho l’abitudine di fotografare i posti in cui dormo. Ecco la mia camera al YHA, che dividevo con altre otto ragazze.

Quale sarà il mio letto?

Pronti per un’altra giornata frenetica? Colazione, mattinata in spiaggia, pranzo e gita al faro nel pomeriggio. Nel frattempo mi rendo conto che nessuno mi corre dietro, e decido di fermarmi un’altra notte a Byron Bay. Ho fatto bene a prenotare solo l’andata. SEMPRE prenotare solo l’andata, che non si sa mai cosa potrebbe accadere.

La salita al faro ci porta via circa mezz’ora, e il percorso ha il suo fascino. Abbandonato il paese, ci inoltriamo nella foresta e di tanto in tanto gli alberi si aprono e ci rivelano vedute spettacolari sulla baia. Vi lascio immaginare cosa sia la vetta… Anzi no, ecco qua:


Il faro si erge sul punto più orientale del continente. La spiaggia che si estende sull’altro lato è meta prediletta dei surfisti, mi dicono. Da qui si vede uno spettacolo fantastico: delfini che saltano, balene che affiorano, se sei fortunato vedi anche i wallaby! Se sei sfortunato, incontri uno squalo! Ma mi auguro che noi si sia fuori portata.

Hic sunt tiburones!

C’è un sacco di gente quassù, e il paesaggio merita. Abbiamo la fortuna di assistere a uno stupendo tramonto. Ma immediatamente dopo inizia a fare freddo, quindi è meglio cominciare la discesa. La foresta ora fa un po’ più paura, gli uccelli non stanno zitti un minuto, ma Bellapasta mi fa notare che quelli che io credo siano pennuti sono in realtà pipistrelli. “Pipistrelli grossi come Batman.” Giuro. Enormi, e continuavano ad arrivare nella nostra direzione, a stormi. Uno si è appollaiato a testa in giù su un ramo nel momento esatto in cui ci siamo passate sotto. Se un pipistrello appeso così fa la cacca, cosa succede?

Rientro in ostello, cena (ho provato gli hamburger di canguro. Che dire… curiosi. Mi hanno ricordato la salamella, ma pare sia molto soggettiva la cosa), chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere. Si è unito a noi e alle nostre chiacchiere anche Dominik, un ragazzo austriaco che vive a Brisbane e nei weekend si sposta a Byron Bay per lavorare. Di mestiere fa il pilota di piccoli aerei, porta in cielo i paracadutisti e poi li butta giù. Fico, eh? E perché vi parlo di lui? A parte che fa un lavoro fichissimo, il fatto è che Dominik possiede un mezzo proprio, e l’indomani sarebbe tornato a Brisbane. “Mi dai un passaggio?” le parole mi sono scappate di bocca involontariamente. Sembra un po’ perplesso, temporeggia, cerca di nicchiare. Che dite, sarà che ha la fidanzata in visita dall’Austria e vorrà passare tutto il tempo utile da solo con lei? Ma io faccio la gnorri. No, dai, a dire la verità mi sono fatta qualche scrupolo, non sono così meschina. Ma pare che l’abitudine di condividere i viaggi in auto sia molto diffusa in Australia, e nel corso di quest’anno sarà il caso che apprenda alla perfezione l’arte del backpacker. Quindi, mi sono guadagnata il viaggio di ritorno. SEMPRE prenotare solo l’andata.

Il giorno dopo scorre in maniera estremamente tranquilla. Bellapasta è di turno, quindi fa avanti e indietro tra l’ostello e la fermata dell’autobus, e a volte la accompagno. Oggi l’ostello offre i pancake per la colazione! Bel modo di iniziare la giornata. Ozio a bordo piscina, appesi alle amache… ci si abitua in fretta a questo genere di vita. 


L’unica nota stonata è il tempo, che oggi fa un po’ i capricci. È proprio ora di tornare a casa. Intorno alle 6 partiamo. Baci e abbracci e ancora una volta: “Assurdo! Trovarti qui in Australia!!!” E speriamo di rivederci presto.

Il viaggio di ritorno è tutto sommato interessante. Faccio un mucchio di domande a Dominik a proposito del suo lavoro, si vede che volare gli piace proprio. Gli spiego che non è che io abbia paura degli aerei, ma c’è sempre questa vocina estremamente flebile nella mia testa che non mi fa stare al 100% tranquilla. Lui mi rassicura dicendo: “Beh, sai che è molto più pericoloso andare in macchina, vero?” Certo, lo so. Mi rendo conto di quanto può essere pericoloso un viaggio in auto, soprattutto se non molli un secondo la mano della tua fidanzata e fai tutto con l’altra mano, gesticolazione compresa. “I piloti sono persone che devono fare un sacco di ore di volo, superare un mucchio di esami. A differenza di molti idioti che guidano. E per quanto riguarda la manutenzione, le compagnie aeree preferiscono spendere soldi ogni anno per assicurarsi che l’aereo funzioni a dovere, piuttosto che perdere il velivolo e spendere così molti più soldi.” Ora, non so se questa cosa dovrebbe tranquillizzarmi definitivamente, o se dovrei sentirmi offesa dal fatto che al centro dei pensieri delle compagnie aeree ci sia il benessere dei mezzi e non dei passeggeri… Vabbè, l’importante è che stiano in aria. “C’è un programma TV, Aircrash Investigations… 90 episodi sugli incidenti aerei più famosi della storia, dovresti guardarlo!” “Ah, sì? Interessante!” Per farmelo vedere dovrete riuscire a farmi questo, prima.


Ma, come al solito, mi sto dilungando. In meno di due ore arriviamo in città, Dominik mi porta alla stazione degli autobus, e da lì a Toowong sono forse 45 minuti, fra bus e treno. L’ultimo tratto è tutto affidato alle mie gambe. Mezz’ora a passeggio nei quartieri residenziali by night, su e giù per le vie collinose, con pochissime luci per le strade. Non incontro un’anima, solo poche auto, e sono solo le 9 di sera. I rami degli alberi si sporgono a mo’ di volta lungo le piste pedonali, e confesso che sono un po’ spaventata, temo che fra le ombre si nasconda qualcuno. Invece sono solo i consueti uccellacci notturni che mi tengono d’occhio. Allungo il passo, mi viene il fiatone, e finalmente arrivo al numero 23, casa. La luce è accesa come promesso, dalla porta a vetri vedo Max sul divano che gioca con l’iPad, Karen che stira guardando la TV e Molly che dorme e sogna lì accanto.
Che weekend incredibile.

Qualche numero per ricapitolare
330 km fra andata e ritorno
Km totali percorsi: 17.030

Oh, non vi ho chiesto se vi piace il nuovo sfondo del blog... così è più leggibile, no?
La prossima volta vi racconterò qualcosa in più su Brisbane!

martedì 28 agosto 2012

A testa in giù


Dov’è finita Swaggirl? È arrivata sana e salva in Australia?
La risposta è sì. L’aereo ha fatto esattamente quello che ci si aspettava da lui ed è atterrato. Sono anche riuscita a dormire un po’ durante il viaggio. Scoot promossa.

Anche se devo confessare che ho vissuto due momenti di terrore puro in aeroporto. Il primo molto, molto comune: la valigia che non arriva più. In genere sono fortunata, la mia è sempre fra le prime che arrivano. Capisco che questo non vuol dire nulla, ma io ci conto sempre… L’unica cosa che riusciva a distrarmi dalla possibile sventura della valigia erano i cani della polizia aeroportuale, i terribili beagle antidroga, che correvano da un passeggero all’altro ansiosi di guadagnarsi il loro biscottino.

Una delle cose più graziose che ho mai visto in vita mia.

Altro pensiero che mi preoccupava non poco: il modulo compilato da consegnare in dogana. Sarò scema, ma ho deciso di tenere un approccio completamente onesto all’ingresso del paese. Non sia mai che poi ti sgamano e ti cacciano per sempre. Quindi ho pensato di dichiarare che avevo con me oggetti di legno, che avevo del terriccio sotto la suola delle scarpe e che ero stata in zone di natura selvaggia negli ultimi 30 giorni. Non sembrano cose gravi, non è vero? Eppure già mi immaginavo: “Signorina, lei sta portando nel paese articoli illegali: la rispediamo al mittente!” Certo, se la valigia era andata persa, un problema eliminava l’altro… Invece la valigia arriva, mi mandano da un gentile ufficiale di dogana che mi controlla gli articoli in questione, mi sequestra una collanina fatta di semi di anguria acquistata a Singapore e mi lascia andare con un gran sorriso. Sono dentro!

Ma dove, esattamente? Sono atterrata a Gold Coast alle 8 del mattino (+8 rispetto all'Italia). Fra una cosa e l’altra, arrivo alla stazione di Brisbane – 80 km più a nord – a mezzogiorno, dove viene a prendermi Max.  E permettete che vi parli di lui e di sua moglie Karen.

Max e Karen sono una gentilissima coppia di sessantenni che ho conosciuto qualche anno fa durante una vacanza in Portogallo. Ero a Porto, in visita a una cantina, e alla fine del tour mi sono ritrovata al tavolo delle degustazioni con questa coppia australiana estremamente simpatica e loquace. Al termine della visita siamo andati a cena insieme, abbiamo chiacchierato delle rispettive vite, ci siamo scambiati gli indirizzi e-mail e ci siamo salutati. Nel corso degli anni ci siamo sentiti occasionalmente, ma niente di più. Diversi mesi fa, per qualche strana coincidenza, Max mi contatta di nuovo chiedendomi se mi ricordo di lui, e io colgo l’occasione per parlargli del mio progetto australiano. E indovinate come è andata a finire?

Vi scrivo dalla camera che mi hanno messo a disposizione nella loro casa di Toowong, sobborgo nord-occidentale di Brisbane, dove vivono con Molly, una cagnolona nera di mezza età, e Mefi e Fluffy, due micie morbidissime (una delle quali, ho appena scoperto, approfitta della mia assenza per adagiarsi sui miei vestiti – tanto per farmi capire chi è che comanda). I primissimi giorni della mia vita australiana Max, che di mestiere fa il giornalista, è stato a dir poco provvidenziale, mi ha aiutato a sbrigare parecchie grane burocratiche e si è sobbarcato l’onere di istruire una sprovveduta europea sull’andazzo della vita downunder. Karen non è da meno, al ritorno dal lavoro (è impiegata presso la biblioteca dell’università del Queensland) trova sempre il tempo per chiedermi come ho passato la giornata e per fare quattro chiacchiere dopo cena. E come passi le giornate? Vi chiederete pure voi.

A dire la verità, finora non ho fatto molto. Se consideriamo che sono arrivata a casa mercoledì a mezzogiorno, il resto della giornata l’ho passato a recuperare; ho trascorso la mattina dei giorni seguenti a fare commissioni in centro (e con centro intendo Toowong centro), come aprire un conto corrente e stipulare un’assicurazione medica, mentre ho passato il pomeriggio a sistemare un po’ i bagagli e le cartacce e ho portato a spasso Molly insieme a Max nel bosco che costeggia il quartiere. Avete presente il tipico quartiere da telefilm americano, tipo Desperate Housewives? Meno ordinato e mi auguro meno percorso da pettegolezzi di sorta, ma molto più ondulato.

Pendenza del 30%

Giovedì sera abbiamo avuto a cena Steven e Lily, rispettivamente il figlio e la nuora, e venerdì erano ospiti tre amici di famiglia, che a quanto mi è stato detto vengono a cena ogni settimana. Insomma, sono stati giorni estremamente tranquilli. Vorrei poter dire lo stesso delle notti. Ora, sono una persona che generalmente dorme ovunque (aerei esclusi).


Mi sono addormentata sui divanetti di un pub con la musica a tutto volume, con la testa sul banco in prima fila all’università durante letteratura inglese, in piedi appoggiata a una porta (di questo vado estremamente fiera), una volta mi sono assopita dimenticandomi un occhio aperto… 


Eppure qui la notte faccio una gran fatica a dormire. Colpa del bestiario che assedia la casa. Corvi giganteschi, opossum in calore, una cosa che si chiama kookaburra… La comunità pennuta di Brisbane è oltremodo rumorosa. Ci sono poi animali più discreti ma per nulla timidi, come i gechi, che non si fanno problemi a entrare in casa e passeggiare tranquilli sulle pareti della sala da pranzo. Max si è sentito in dovere di tenermi una lezione su creature potenzialmente pericolose che potrei trovare in Australia, ma “stai tranquilla che i gatti mangiano qualsiasi cosa: ti difenderanno loro!” mi ha assicurato Steven. Ciò non toglie che la notte, quando sento zampettare lungo la parete, tanti saluti e me ne vado in immersione sotto le coperte.

Ecco, questo è stato il primissimo impatto con l’Australia. Per riassumere:

6.100 km, metro più, metro meno.

Per un totale di 16.700 km da quando sono partita.
La prossima volta percorreremo un altro tratto di strada e vi racconterò di un incredibile incontro che ho fatto quaggiù.

giovedì 23 agosto 2012

Chi non ha testa, ha gambe


Giorno 3

In questo nuovo giorno, volevo andare a visitare la riserva naturale di Bukit Timah, a nord della città. Così a nord che è fuori dalle mappe del centro. E puntualmente, io che mi perdo persino con una cartina, mi sono smarrita anche questa volta. Ma non è stata colpa mia, sono gli autisti degli autobus che mi davano informazioni errate. Oltretutto, se non mi fossi persa non sarei finita in quel posto fantascientifico che è l’area di Marina Bay.

Manco a farlo apposta, prendendo un autobus a caso (dopo il terzo bus errato, a un certo punto ho detto: “Sai che? Esploriamo la città con i mezzi pubblici, vediamo dove finisco!”) capito nella zona della baia, costellata di edifici che dire futuristici è riduttivo.

Sembrano cose tirate su a caso...

Ero contentissima, il ponte a forma di elica che attraversa la baia punta dritto dritto al mostruoso edificio che avevo visto due giorni prima dall’altro lato del fiume e che mi attira come il nuovo film di Joss Whedon. Più mi avvicino al colosso, più penso: “È mostruosamente grande. Chissà cos’è. Chissà se ci posso salire.” Non è certo l’unico edificio strano, in questa zona. A parte la banale ruota panoramica, lo stadio di calcio in costruzione sull’acqua, il centro commerciale a ciambella, il museo delle arti e delle scienze a forma di guantone da baseball...
Ho perso il filo del discorso. Attraverso il ponte, entro nella ciambella e cerco di salire il più possibile. Nella mia testa, è questa la chiave per arrivare a quel coso mostruosamente grande. Scopro che in cima alla ciambella, all’esterno, c’è una sorta di passeggiata che circonda tutto l’edificio e ti porta sempre più vicino al mostro. È piacevole, quassù, C’è silenzio, non c’è quasi nessuno, ed è gradevole passeggiare sotto il sole di mezzogiorno a 45° all’ombra. Circumnavigo la ciambella, e forse trovo la base del mostro. Di più, scopro che razza di creatura è: un fottutissimo hotel.

Oggi potrebbe finire male...
Mentre cerco una via d’entrata, continuo a ripetermi questo mantra: è un fottutissimo hotel. Santo dio è un fottutissimo hotel. Chi ha mai pensato di poter fare una cosa così grande e metterci dentro delle camere da letto? È una torre di Babele del XXI secolo, ecco che cos’è. Cerco disperatamente l’ingresso, e alla fine lo trovo, non prima di aver detto per l’ennesima volta: è un fottutissimo hotel. E si può salire in cima!!

Sorriso soddisfatto di chi ha appena avuto un'idea malsana
Faccio il biglietto, prendo l’ascensore e up in the sky! 57 piani, 200 metri, ed eccomi sulla prua di quella nave che corona i tre edifici del fottutissimo hotel. Scoprirò solo in seguito che il tratto della struttura che sporge dal tetto è il più lungo del suo genere. Stavo là sopra, sospesa nel vuoto, e non mi rendevo conto. Meglio così. Altra cosa che ho scoperto in seguito, è che in cima c’è anche la piscina più alta del mondo. Complimenti. Io mi accontento di girare da un lato all’altro della nave, e a tribordo scopro un’altra cosa curiosissima: un parco con delle strutture assolutamente eccentriche, sembrano alberi metallici incredibilmente grandi. Decido che, una volta scesa a terra, voglio esplorare quel luogo. Non prima però di aver visitato le mostre abbinate al tetto del fottutissimo hotel: Andy Wharol e il maledettissimo Harry Potter. Torno quindi alla base, e prima di recarmi al museo – il guantone da baseball – bighellono un po’ nella hall dell’hotel. Ormai vi sarete stufati di sentirmi dire che non ho mai visto una cosa del genere, ma è così. Sembra un ibrido fra una nave spaziale e un alveare, posto che non ho mai visitato nessuna di queste due cose.

Ogni "striscia" è un piano. Cose pazze.
Mentre passeggio, penso che voglio vedere come sono i cessi di un posto del genere, quindi mi infilo nella toilette… delusione, sono cessi appena sopra la media. All’estremità della hall c’è un ristorante rialzato con tanto di quartetto d’archi che suona, e la violinista ha la faccia divertita di quella che pensa: “Ma guarda sti allocchi, come si fanno abbindolare da un po’ di pailettes…” Io mi avvicino ai musicisti e mi metto ad ascoltare accanto a una panchina. Una panchina stranissima, d’altra parte come ogni cosa in questo posto: sembra il dorso di un dinosauro, è coperta da scaglie di plastica verde. Mi siedo per saggiarne la comodità, sono molto curiosa, magari è l’ultimo grido in termini di ergonomia. “Mi scusi, ma’am (davvero, qui ti chiamano tutti così), ma non può stare seduta lì… quella è un’opera d’arte.” …gag da film. Me ne vado un po’ mortificata, ma anche fiera di me per le mie figure barbine, e prendo il tunnel che porta al casinò, al teatro e al guantone da baseball. Inutile che vi racconti delle mostre (vi dico solo che sono entrata come Corvonero). Passiamo piuttosto al parco là davanti.

Un’attrazione nuovissima, Gardens by the Bay, che guarda al futuro in maniera impressionante, ma a me non faceva che ricordare Jurassic Park. Un’area che comprende una serra di fiori, un’altra serra che ricostruisce la foresta pluviale - addirittura con una cascata interna - un percorso con le palme di tutto il mondo, la ricostruzione di giardini asiatici vari, prati, stagni (con due inquietanti libellule metalliche che volano a pelo d’acqua) e il pezzo forte, il bosco dei super alberi. Sti catafalchi alti fra i 25 e i 50 metri sono strutture che hanno lo scopo di riciclare acqua e catturare l’energia solare. Non ci ho capito nulla di spiegazioni tecniche scientifiche, ma l’insieme è notevole. E, sullo sfondo, sempre il fottutissimo hotel.

Questa gente ama davvero i parchi. Mi incammino verso l’uscita e nelle zone meno battute dai turisti incontro singaporiani (?) dediti al più dolce far niente, a bivaccare, a cazzeggiare in questa domenica ormai arrivata al termine. È solo quando esco dai giardini e costeggio l’area portuale che incrocio frotte di operai indiani che staccano dal lavoro e tornano a casa. Neanche oggi hanno perso tempo; ci hanno pensato loro, a mandare avanti la baracca. Che a Singapore c’è ancora molto da costruire.
Giorno 4
Pochi cazzi, oggi devo andare a Bukit Timah! Parto anche prima del solito, esco di casa ben mezz’ora prima, che non voglio fare tardi. Ho addirittura controllato i mezzi per arrivare al parco. Stavolta non mi scappa.
E infatti, appena 2 ore dopo (e foto al KFC!), eccomi catapultata nel cuore della jungla di Lost. Oddio, all’inizio non è così selvaggia. C’è solo questo sentiero asfaltato ripidissimo che mi sfianca dopo pochi metri. In più mi sono messa in cammino che saranno le 11.30 passate: vi lascio immaginare il caldo. Bukit Timah è una collina ( = bukit) di Singapore, anzi con i suoi 164 metri scarsi è il punto più alto della città, ed è l’unica zona che ancora conserva la vegetazione originaria dell’isola. Insomma, per vedere com’era Singapore fino a 150 anni fa, bisogna salire a Bukit Timah.

Ci ho trovato una marea di persone in escursione: giovani, meno giovani, molto giovani, da soli, in gruppo, a camminare, a CORRERE… cose pazze, che coraggio! Nella riserva naturale ci sono 4 sentieri principali da percorrere, un sentiero dedicato ai ciclisti e dei sentierini minori. Il percorso più diretto per la vetta della collina è lungo circa 2 km… ma come ho già detto in passato, a me non piacciono le cose semplici, no? Quindi ho scelto di perdermi nei meandri della jungla. Anche perché speravo, andando nelle zone meno frequentate, di incontrare le scimmie che popolano la foresta. Vi dico subito che purtroppo non ne ho viste :( Ma l’esperienza è stata comunque interessante. Immensi alberi esotici avvolti da liane, vegetazione che non lascia scampo al più sottile raggio di sole, e un pensiero che mi perseguita: se cado e mi rompo una gamba qui, non mi troveranno mai più. D’accordo, sto esagerando. Se non altro perché c’è davvero molta gente a spasso per la foresta. Ma il rischio di cadute è verosimile: spesso i sentieri, quelli più selvatici, consistono in gradini scavati nella terra alti anche 40 cm, e se non hai un buon slancio rischi di non farcela a salire, e se ne hai troppo in discesa rischi di cadere rovinosamente lungo queste scale infinite. Il terreno è giallo e viscido per l’umidità, io stessa sono viscida per l’umidità, ma rossa anziché gialla. Per lo sforzo, si capisce. Per la prima volta in vita mia, ho la maglietta tutta chiazzata. Non pensavo di essere in grado di sudare.

A un certo punto, a forza di vedere solo piante, divento paranoica: gli insetti e gli uccelli sono fra le cose più chiassose in natura, o almeno quelli che sono a Butik Timah, e qualsiasi rumore che sento mi dice con certezza che sono inseguita da un mostro di fumo nero. Mi volto continuamente per essere sicura di essere sola. Questo posto non me la conta giusta. Sì, OK, quanto è bella la natura… ma se riesco a uscire di qui sarò più tranquilla. Quindi accolgo con gioia il momento in cui la scala della morte si ricongiunge al sentiero principale, quello che porta alla vetta! Tutta sta fatica per 164 metri, e mi sento come Reinhold Messner in cima all’Everest. O come Godo in cima al Monte Fatto.

Notare la latitudine
La discesa è molto più rapida. Avrei potuto allungare su un altro sentiero secondario… ma anche no. Visto un albero, visti tutti. E oggi ne ho visti parecchi. Devo tornare alla caoticissima città, ora ho i compiti da ultimo giorno da assolvere: shopping! Che a dire il vero si riduce a cartoline e poco più. E ho in mente una destinazione precisa per i miei acquisti: Chinatown e Little India! Che vi ho già raccontato con dovizia di particolari, quindi credo di fare cosa gradita a tutti se non mi dilungo eccessivamente. L'unica cosa degna di nota è che, a zonzo per Little India, sono finita in uno strano vicolo. All'inizio c'è un altare con un signore che prega. Poco dopo un gruppo di uomini fermo davanti a una porta, e penso che deve trattarsi di un altro luogo di preghiera. Ci passo davanti... e vedo una signorina in deshabillé che legge il giornale. Non ci posso credere: sono finita nella strada dei bordelli. Una casupola dopo l'altra con donnine che si affacciano appena aspettando i clienti, ma evidentemente la signorina al civico 1 è la più gettonata, sono tutti a fare la fila da lei. Passo anche davanti a un tristissimo negozio di articoli erotici. Mi sento veramente a disagio, chissà che pensano i locali vedendo una turista armata di macchina fotografica e cartina che vaga nel quartiere. La strada non è lunga, ma sembra non finire mai. Ma come faccio a finire sempre in queste situazioni assurde? Finalmente, sorpasso un water abbandonato per la strada, ed esco dall'imbarazzo immenso. Ecco un'altra cosa da raccontare.

Giorno 5
Intanto, la sera prima sono tornati Mary e Michael dal loro weekend, e stamattina è tornata anche Pantoufle! Che era stata mandata anche lei a fare qualche giorno di vacanza.
La giornata è stata abbastanza tranquilla, devo dire. Sveglia con estrema calma, chiacchiere per recuperare un po’ i giorni trascorsi, molte coccole a Pantoufle e il momento della temuta valigia. Fortunatamente sono il tipo che non disfa i bagagli neanche per la vacanza di due settimane, ma questo non vuol dire che sia stato semplice chiudere e assicurarsi di non aver lasciato indietro nulla. Ma ce l’ho fatta.
Spesa, pranzo e giretto in una enorme libreria (ormai l’avrete capito, qui tutto è enorme) vicino a casa, e infine il momento della partenza è arrivato.
Non ci vedevamo da 12 anni, e ci siamo incrociate solo per un paio di giorni scarsi… ma voi non sapete quanto mi ha fatto piacere rivedere la mia amica! Una di quelle cose che fanno bene al cuore, davvero. Essere accolta come mi ha accolto lei, soprattutto all’inizio di un viaggio del genere, è stato un modo meraviglioso per cominciare quest’avventura. Grazie infinite, Mary! Spero di poter ricambiare, un giorno!
E adesso? Adesso* (in Italia sono le 20.30) sono in volo sull’Oceano Indiano, con la compagnia low-cost Scoot. Una specie di Ryanair, ma un po’ più larga e più gentile. Naturalmente non riesco a dormire. Ho commesso l’errore fatale di prenotare un posto col sedile che non si può tirare indietro. Inoltre nella fila accanto alla mia c’è un gruppo di australiani – stimo – extralarge e soprattutto molto maleducati, col capofamiglia che ha ruttato ripetutamente durante la cena, ora ronfa di gusto, ogni tanto si sveglia per urlare due vaccate e poi si rimette a ronfare.
Ci vediamo in Australia.

Prima di lasciarvi, due cose:
per chiudere la pagina Singapore, qui trovate l'album delle foto che ho pubblicato su Facebook (che dovrebbe essere visibile anche per chi non ha un account).
Poi, giocando con il blog, ho scoperto il modo per farvi diventare accaniti lettori di Where is Swaggirl? e ho appiccicato il bottone in alto a destra: Compagni di viaggio. Cliccate, eh!
*ovviamente il post è pubblicato in differita.

mercoledì 22 agosto 2012

Sing-a-fusion


Datemi una mappa, e stenderò un programma di esplorazione coi fiocchi. Il giorno 2 è stato interamente dedicato alla Singapore etnica, e ha rivelato molte belle sorprese.

Partiamo da Chinatown, che si trova a sud della città, oltre il Central Business District che ho visitato il giorno prima. L’etnia cinese è la più numerosa della città, e pare che sia anche la più ricca. Ma la Cina che ho scoperto nel quartiere non fa pensare ai cinesi arricchiti che frequentano le boutique del centro, bensì a quelli di Grosso guaio a Chinatown. Appena uscita dalla metro, la seconda cosa che mi colpisce (la prima è l’afa) sono gli odori: fritto, incenso e qualcosa che mi fa pensare a medicine al mentolo. Finisco in una via affollatissima, decorata con un mucchio di lanterne rosse, costeggiata da bancarelle a destra e a manca. Curiosamente, le costruzioni non ricordano in alcun modo l’architettura cinese (argomento su cui sono estremamente ferrata, come vi lascio immaginare…), ma sono imparentate più da vicino con le costruzioni coloniali del XIX secolo, simili a quelle che ho visto anche a Little India la prima sera in città.

Già di norma il mio senso dell’orientamento fa difetto: qui mi ha praticamente chiesto la libera uscita e mi ha lasciato lì in mezzo alla via, senza la minima idea di dove andare. Nel dubbio, salgo verso il cielo, dove l’aria è più respirabile. Prendo un passaggio sopraelevato e attraverso la strada. Per finire dritta dritta in un mercato coperto. Giuro che il primo pensiero è stato: lasciate ogne speranza voi ch'entrate. O, a essere onesti: Ila, da qui non ne esci viva. C’è più spazio fra due file di sedili in aereo che fra una bancarella e l’altra. E quanti articoli! Gli aggeggi di elettronica vanno per la maggiore, ma anche tanto abbigliamento, cianfrusaglie varie, giocattoli… tutto coloratissimo e pacchiano.


Agenzie di viaggi, centri estetici, negozi di parrucche, cambiavalute (gestiti rigorosamente da indiani però). Qui sotto è tutto molto meno turistico, bensì indirizzato a una clientela soprattutto locale. Cosa ancora più vera quando finisco nella food hall, una specie di centro commerciale dedicato al cibo: un salone - piuttosto squallido - occupato al centro da un sacco di tavoli rotondi e delimitato da chioschi che offrono piatti delle cucine più diverse. Gli odori sono fortissimi, c’è poca aria (sembra di essere in uno scantinato), ma lo spettacolo è in qualche modo affascinante. Famiglie, anziani solitari, gruppetti di adolescenti, giovani professionisti sono qui a passare il sabato pomeriggio, e spendono parecchio del loro tempo davanti a un'enorme ciotola di zuppa dal contenuto se non altro dubbio, o dividendosi un piatto a base di pesce e verdure.


Credo di essere l’unica occidentale qua sotto. Avanzo con la mia macchina fotografica in mano, e temo di dare l’impressione scortese di essere in visita a uno zoo, da come mi aggiro curiosa fra i tavoli. Meglio affrettarsi verso l’uscita, che sembra non arrivare mai. Eccola invece. E che sorpresa! Sopra la porta che mi reintroduce all’interno del centro commerciale vero e proprio c’è il mio amico, il Colonnello Sanders, che mi sorride benevolo. Sapevo che ti avrei trovato qui, fuori dalle rotte più turistiche, in mezzo alla piccola gente! Apro la porta, ed ecco il KFC di Chinatown! Ovviamente devo fare la foto. Fermo una coppia di giovani cinesi e chiedo loro se possono farmi il favore. Il ragazzo si presta divertito, e intanto mi chiede: “Da dove vieni? Non c’è il KFC al tuo paese?” Eh no, caro mio. Se vogliamo fare un appunto all’Italia, non ci sono KFC (per inciso, ho scoperto che negli anni ’70 ce n’era uno a Napoli). Ringrazio, saluto, e tutta contenta proseguo il mio vagare. Ho voglia di uscire di nuovo all’aperto, voglio vedere cosa c’è a Chinatown oltre ai centri commerciali e ai ristoranti. La guida mi dice che, fra i punti di interesse, c’è un tempio induista, un tempio buddista e una delle più antiche farmacie tradizionali cinesi della città. Facendomi largo fra gli altri turisti e procedendo un po’ a caso, trovo il primo segno che mi suggerisce che forse sono sulla strada giusta: la statua di una vacca in cima a un muro, in compagnia di diversi piccioni.


Sarà mica il tempio induista? Risposta esatta!
Sfortunatamente è chiuso, o meglio: il complesso è aperto, ma gli edifici non sono visitabili. Poco male, è il mio primo tempio induista, non mi lascio sfuggire l’occasione. Mi levo le scarpe, che vanno lasciate fuori (ma non mi fido, me le infilo in borsa), e mi appresto alla porta d’ingresso, sormontata da una specie di piramide fatta di figure semi-umane e bestiali coloratissime. Sono emozionata, sul serio. È la prima volta che vedo una cosa del genere, un’opera dell’ingegno umano così diversa da quello cui sono abituata. All’interno ci sono diversi altri edifici, di cui solo uno, una sorta di portico, permette una vista che vada al di là dei semplici tetti (sempre popolatissimi di figure mostruose e titaniche). I soffitti del portico sono decorati con dipinti dai colori molto vivaci, che riportano scene di chissà quale ciclo mitologico, motivi circolari, fiori… Spesso le figure umane hanno un sacco di braccia. Inquietante. 
Giro fra un edificio e l’altro, scalza, e l’asfalto è a dir poco aggressivo: il sole picchia cattivo! Qui non c’è nient’altro da vedere, corro verso l’uscita, lavo i piedi alla fontana e saluto le divinità indiane. Curiosità: la strada su cui si affaccia il tempio, Pagoda Street, prende il suo nome proprio da questo edificio, perché in passato si tendeva a confonderlo con una pagoda, appunto.

Comunque, a questo punto posso tornare in Cina. Sulla stessa strada c’è l’altro luogo che cercavo, la farmacia. Io pensavo di trovare una specie di museo, o almeno una cosa un po’ losca… e invece entro in un punto vendita modernissimo, con gli scaffali che però espongono sia prodotti farmaceutici classici sia articoli un po’ più esotici. All’ingresso c’è la statua del fondatore della farmacia e un angolo dedicato a illustrare i vantaggi della medicina basata sui nidi di rondine. Cioè, in inglese erano generici bird’s nest, nido di rondine lo dico io. Mentre mi avvicino, una gentile signora con l’aria da bidella mi offre un bicchiere di tè al ginseng. È solo un bicchierino, ma lo trovo corroborante, le gambe mi sembrano più leggere. Probabilmente è solo suggestione.
È ora di uscire dalla farmacia, che non offre molto, e andare alla ricerca del tempio buddista. Che trovo per caso pochi metri più in giù. A dire la verità, pensavo si trattasse di un hotel. Avvicinandomi però avverto un intensissimo odore di incenso e sento una cantilena insistente. L’odore proviene da un enorme braciere posto all’ingresso del tempio, dove la gente infila dei bastoncini di incenso dopo averli agitati un po’ per pregare. La cantilena proviene dall’interno, dove si svolge una cerimonia buddista. Sembra che dicano il rosario. 


Non so neanche da dove cominciare per descrivere il tempio. Posso dire solo rosso, oro e un po’ pacchiano. Pieno di statue del Buddha di ogni dimensione. È un tempio su più piani: in cima, al centro di un giardino, c’è un’enorme ruota di preghiera; al livello inferiore è custodita, al centro di una sala per la meditazione, la reliquia del Buddha, un dente. A me le reliquie hanno sempre fatto impressione e a dire il vero non le prendo neanche troppo sul serio, quindi non mi soffermo più di tanto. Certo che anche questo posto mi fa un certo effetto: dopo il mio primo tempio induista, questo è il mio primo tempio buddista. Che giornata impegnativa.
Ma è arrivato il momento di lasciare Chinatown e spostarsi verso Little India, che si trova molto più a nord, oltre il fiume. Mentre percorro una delle arterie principali del quartiere cinese, passo davanti a un negozio di sartoria, dove c’è un uomo che sta lavorando alla macchina da cucire. È questione di un secondo: alza un attimo lo sguardo mentre sto passando e mi rivolge un “Hola”, scambiandomi naturalmente per spagnola. Quasi in maniera automatica ricambio il saluto e lui si illumina, chiedendomi di dove sono. Mi spiace deluderlo: “Italiana”, ma evidentemente gli piace anche questa risposta. Mi avvicino alla sua postazione di lavoro e iniziano le domande di rito: sei qui in vacanza, dove vai, quanto ti fermi… Per il momento sono ancora indecisa se parlare in inglese o in spagnolo, confesso di essere un po’ incerta su entrambe le lingue. Però il sarto ha una voglia di chiacchierare così grande, che dopo pochi minuti dei soliti scambi di circostanza mi sciolgo e mi siedo a uno sgabello accanto a lui. Dopotutto, sono ore che cammino e non mi fermo un attimo. Ci presentiamo: si chiama Muhammed e viene dalla Turchia. Mi chiede se può offrirmi qualcosa. “Ce l’hai il caffè turco?” “Indonesiano.” “Andata!” Così è iniziata un’amicizia di una ventina di minuti, una delle più improbabili che mi siano capitate. Muhammed ha iniziato a raccontarmi della sua vita, della sua famiglia, dei suoi lavori precedenti, della diplomazia che serve nel mestiere del sarto, mi ha mostrato le foto di sua moglie e di sua figlia, e intanto si preparava una maglietta alla macchina da cucire. Da parte mia gli ho raccontato un po’ dei miei progetti, della mia famiglia, dei miei viaggi… Tutte cose che voi già sapete. Alla fine mi sono rimessa in cammino, ma più che camminare galleggiavo, dopo aver fatto questo bellissimo incontro.


Piena di entusiasmo per l’incontro con Muhammed, mi sento chiamare ancora. Stavolta è un indiano di una cinquantina d’anni con barba e turbante che mi dice qualcosa che faccio fatica a capire. Dopo diversi tentativi, credo mi abbia detto queste cose:
  •           Sono una che pensa troppo
  •           Sono una che parla poco
  •           Arrivo da 3 anni difficili
  •           Fra due mesi mi capiterà una grande fortuna
E mi consegna una perlina bianca (curiosità: in Oriente i doni vanno ricevuti con entrambe le mani). Nel momento in cui mi consegna la perlina, capisco l’antifona: “Non vorrei offenderla, ma vuole un’offerta?” “Solo quello che ti senti.” Caccio la mano in tasca, ho 2 dollari. “Eh, dai, almeno 10 dollari!” Capito il santone? Io non mi lascio turlupinare ulteriormente e quello si intasca i 2 dollari (e secondo me mi ha tirato una gufata che non finisce più. Vi faccio sapere fra due mesi).
Ma insomma, quanti incontri! E finalmente arrivo a Little India. Inizialmente non mi dice granché, solo una serie di condomini e strade un po’ desolate. Ma a forza di girare, capisco che l’avevo presa dalla parte sbagliata: nella via principale del quartiere c’è una sarabanda di botteghe, negozi, ristoranti con infiniti, coloratissimi articoli. Vi ho mai detto che penso che i costumi delle donne indiane siano stupendi? E li portano così bene, loro! Io farei ridere, eh… In tutto ciò, è pomeriggio inoltrato e non ho mangiato praticamente nulla. È l’occasione giusta per prendere una noce di cocco da passeggio. Una cosa grande come un pallone da calcio regolamentare, pesante come una boccia da bowling e contenente un litro e mezzo di latte di cocco. Eccola qui, la mia noce di cocco. L’ho chiamata Wilson.


Insieme, passeggiamo per le strade del quartiere, facciamo le foto, ci scambiamo opinioni sul percorso da effettuare, ci riposiamo sedute a un marciapiede. È in quel momento che, miracolosamente (avendo beccato una rete wi-fi a sbafo), ricevo un messaggio da Cecilia. Cecilia è una ragazza italiana che vive qui da qualche mese, amica della mia amica Irene. Quando Irene ha saputo della mia tappa a Singapore, mi ha subito parlato di lei, e quindi l’ho contattata per cercare di beccarci. Come con Mary, è sempre bello incontrare qualcuno che ti accolga in un posto nuovo, no?
Dicevo, il messaggio di Cecilia, che mi invita a raggiungerla in Arab Street intorno alle 17. La buona notizia è che sono a uno sputo dai quartieri arabi, che erano anche in programma. La cattiva notizia è che sono le 17.30. Fuck. Mi separo dolorosamente da Wilson e inizio a dirigermi a velocità sostenuta verso Arab Street, ma prima invio un nuovo messaggio chiedendo un punto di riferimento più preciso. I quartieri arabi sono davvero vicini, in 10 minuti sono lì. Ma c’è un nuovo problema: non riesco in nessun modo a mettermi in contatto con Cecilia. Non riesco a chiamarla, non riesco a mandare sms, non riesco a intercettare nessuna connessione di straforo. Inizio a percorrere le vie della zona su e giù, pensando più che altro alla colossale figura di merda che sto facendo con questa persona che è così gentile da dedicarmi parte del suo tempo, oltretutto pure con il fidanzato in visita.



Arrivo a un incrocio e penso che se riesco a ossigenare il cervello quel tanto che basta, magari troverò una soluzione. Mi siedo a una panchina di fronte a una coppia di occidentali. Dopo 30 secondi mi sento chiamare: “Ilaria?” “Cecilia???” Carramba!! Cioè, capito? Li ho beccati praticamente per caso!!! Forse il santone aveva ragione, e la fortuna è iniziata anche prima del previsto.

Siamo ormai in orario aperitivo, e ci sediamo a un tavolino di un locale del quartiere a berci una birra locale. Ci raccontiamo vicendevolmente di quello che facevamo in Italia e come siamo finite a Singapore, ma poi parliamo anche di libri e cinema, viaggi e studi universitari… Insomma, chiacchieriamo del più e del meno e trascorriamo un paio d’ore veramente piacevoli. Intorno alle 8, Cecilia e Matteo mi salutano perché devono recarsi a un appuntamento, e io decido che per oggi ne ho avuto abbastanza di girare e posso anche andare a casa. Ancora non posso credere  al culo che ho avuto: credo che in una sola giornata sia stato anche troppo, meglio non sfidare la sorte.

Prima di lasciarvi, ecco i nomi dei fortunati vincitori che hanno indovinato la citazione cinematografica: Davide, Edo eWeaver-Ant, che ci fornisce anche il link.

Ciao!

lunedì 20 agosto 2012

Welcome to Singapore


Allora, allora, allora. Singapore. Da dove cominciare?
Magari qualche informazione, tanto per capire di cosa parliamo.
Un’isoletta sulla punta meridionale della Malesia, giusto sopra l’equatore (ne ho le prove: appena sbarcata, sono andata nel bagno dell’aeroporto a controllare, Bart Simpson docet). È una città-stato e ha circa 4 milioni di abitanti. Per l’estensione che ha, 4 milioni di persone sono un casino di gente. E infatti me li trovo sempre fra i piedi, ovunque vada.

Sono così tanti in uno spazio così ristretto, che beccatevi queste tre curiosità:
  1. La città si sviluppa in verticale. Ogni tanto i costruttori comprano palazzi vecchi, li buttano giù e ricostruiscono da capo.
  2. Per scoraggiare l’uso del mezzo privato, il governo ha fatto in modo che essere proprietari di un’auto sia estremamente costoso: serve un permesso speciale che ti costa una cifra. Ma una cifra grossa. Tipo che con quei soldi ti potresti comprare una Porsche. Eppure non mi pare che ci siano poche auto in giro, anzi non ho mai visto così tante Ferrari in così poco tempo.
  3. Singapore acquista la terra (nel senso di terriccio) dai paesi vicini per espandere il suo territorio.
In questo piccolo spazio (con la più alta concentrazione di miliardari del mondo) si intrecciano un sacco di etnie: cinesi, indiani e malesi soprattutto. In giro si trovano sempre i cartelli nelle rispettive lingue, e fortunatamente anche in inglese, dal momento che l’inglese è una delle lingue ufficiali a causa del retaggio coloniale. Mo’ non voglio stare qui ad annoiarvi con la lezione di storia, anche perché dovrei andare a verificare ciò che scrivo, ma non ho molta voglia, e rischierei così di fare brutte figure. Ergo, in caso vogliate approfondire l’argomento, vi rimando alla pagina di wikipedia. Tutto questo per dire che: tutti parlano anche inglese, oltre alla propria lingua d’origine. Come lo parlano… lasciamo stare. Ogni volta che mi rivolgono la parola, ho l’impressione che mi parlino in cinese (anche gli indiani e i malesi).
Bene, credo di avervi annoiati abbastanza con i dati di background. Vorrete sapere cosa ho fatto qui sull’equatore, no?

Partiamo dal giorno 0,5. Come vi dicevo, sono atterrata intorno alle 14. Riprendiamo da lì. Che ho fatto dopo? Dove sono andata? Chi mi ha accolto in questa impressionante città orientale?
Appena scesa dall’aereo ho preso il mio taxi e sono andata a casa di Mary Jo. La Mary è un’amica di vecchissima data delle sorelle Materassi - mia e di Isa, insomma - che non vedevo da 12 anni se non vado errata, da quando aveva lasciato Vanzago. Quando ho saputo che ora vive a Singapore con suo marito Michael e un’adorabile cagnolina di nome Pantoufle, ho pensato di contattarla per incontrarci. Lei non solo mi ha risposto con entusiasmo, ma mi ha addirittura invitato a stare a casa sua! Ora, andare in giro per il mondo e ritrovare i vecchi amici è una cosa che adoro. E non perché mi piace andare a scrocco. Poter vantare amicizie disseminate qua e là mi sembra quasi una prova della capacità di una persona di creare legami, una dichiarazione di… chiamiamola ricchezza relazionale. Che, come ho scoperto nel corso dei miei viaggi, è una cosa importantissima. Non lo dico per fare retorica, davvero. L’ho imparato sulla mia pelle, testato sul campo. Un giorno vi racconterò di quando me ne stavo sola e ammalata nel mio squallido appartamento di Dublino, e la mia amica Elisa andava e veniva per portarmi le medicine e i generi di prima necessità, facendo le veci della mia famiglia. Ma sto uscendo dal seminato.

Dicevo, la Mary. Sono passati 12 anni, e non è cambiata di una virgola! Che strano essersi salutate a Vanzago e rincontrarsi a Singapore, tornare a parlare della gente del paesello, delle c******e che si combinavano da adolescenti, e raccontarci il riassunto delle rispettive vite! Nel mentre, cercavo di sconfiggere gli effetti del jet lag. E c’è modo migliore per non pensare al sonno che andare a mangiare? Cena in un delizioso ristorante di Little India, senza scarpe, sedute per terra e mangiando cibo molto, molto piccante. Fanno anche le gare per vedere chi riesce a battere il record. Io mi sono attestata su un 3, che in una scala da 1 a 6 è dignitoso, no? Ed è stato anche faticoso, ve lo assicuro. Ma tutto molto buono.

La Hall of Fame dei mangiatori piccanti
Che dire, dopo la cena non è che abbia tirato ancora a lungo. Siamo tornate a casa (e dal taxi ho addocchiato un KFC!) e sono riuscita ad addormentarmi, come vi dicevo l’ultima volta, con il pc sulle gambe mentre chattavo con mia sorella. In Italia erano solo le 19.

Giorno 1

In teoria doveva iniziare con una corsetta al parco. In pratica, grazie Mary per avermi lasciato dormire! Inutile dire che ne avevo proprio bisogno. La giornata è partita qualche ora dopo con una bella colazione e quindi con un giretto ai giardini botanici, dove tra le altre cose c’è una serra per le piante che vivono in ambienti freddi. Quindi entri in magliettina e sbarbelli dal freddo, come dice mio padre, perché dentro ci saranno 15°,poi esci e svieni dal caldo per i 34° e l’umidità del 200%. Poi giardini con le orchidee e statue improbabili (è più fuori contesto il busto romano, le giraffe o l’unicorno?), sentierini che si immergono nella foresta tropicale, alberi colossali che ti avvolgono con radici che sembrano drappi, alberi preistorici che sono piante e rocce insieme.


Un gigantesco parco giochi per imparare un sacco di cose, che mi ha ricordato quei libri che avevo da piccola, I Quindici: un’enciclopedia per ragazzi, i cui volumi erano dedicati ognuno a un argomento diverso, come fiabe, piante, animali, luoghi del mondo… e mentre leggevo sognavo di vedere da grande le cascate del Niagara in America o il Sentiero del Gigante in Irlanda, e anche quegli alberi preistorici che sono piante e rocce insieme…  almeno un desiderio nella mia vita l’ho realizzato, in fin dei conti :)

Nel pomeriggio, Mary e Michael sono partiti per un weekend lungo, e Swaggirl ha iniziato le sue peregrinazioni in direzione del quartiere finanziario, a sud della città, oltre il fiume.

Central Business District

Come al solito io mi faccio i miei bei itinerari nel cervello, ma poi mi perdo, sbaglio a leggere le cartine, mi rifiuto di chiedere, se chiedo non capisco… Però così si scoprono un sacco di cose interessanti. Presempio, fra i palazzoni chilometrici del Central Business District, c’era un omino cinese accanto a un tavolo pieno di cose da mangiare, con due falò ai lati e un sacco di bastoncini di incenso accesi.


Ero troppo curiosa di sapere il perché e il percome, allora con la scusa di fare una foto gli ho chiesto di che si trattava. Mi ha spiegato che agosto è il mese in cui si celebrano gli spiriti, e l’altare era per le offerte all’aldilà, e chiunque voleva poteva fermarsi a pregare. Intanto era impegnato a bruciare dei foglietti: rappresentavano soldi, che venivano anch’essi offerti agli spiriti. Ringrazio il vecchietto per la spiegazione e me ne vado tutta contenta di aver scoperto questa tradizione original made in China; sono poi venuta a sapere (stavolta dalla mia guida) che a Singapore esiste un tempio dove si celebrano addirittura le nozze fra gli spiriti: se una ragazza muore nubile, i parenti possono mettersi in contatto con un’altra famiglia che magari ha perso un figlio non sposato e organizzare le nozze dell’altro mondo (ma, Bellaisa Fuse e Amico Fritz, il vostro matrimonio rimane insuperabile). Altrimenti, ci sono persone che si occupano di trovare lo spirito più adatto per la defunta. Una specie di agenzia matrimoniale per i cari estinti, non so se mi spiego. Non è una cosa incredibile? Evidentemente, rimanere single non è una scelta che gli spiriti approvano. Non è dato sapere quale sia la loro opinione in materia di unioni civili e matrimoni omosessuali.

Quanto mi sto dilungando! Comunque, di nuovo, cammina cammina, arrivo fino ai moli, dove sono accumulati un sacco di pub e locali per turisti.


Davvero tutto molto pittoresco, soprattutto alla luce del crepuscolo, ma ci sono passata in mezzo a testa bassa. Il mio obiettivo era il museo delle civiltà asiatiche! Che non riuscivo a trovare. Devo averlo cercato per tre ore almeno… colpa delle cartine, eh, che erano errate. Sì sì. E quando alla fine lo trovo, non era proprio quello che mi aspettavo. Da appassionata frequentatrice delle più rinomante gallerie d’arte occidentali (da leggere con la R moscia,seduti in poltrona e tenendo in mano un calice di vino rosso), pensavo di entrare in una pinacoteca con gli equivalenti asiatici di Picasso, Botticelli, Raffaello e così via. Invece trovo armature di guerrieri mori, tappeti persiani, utensili daiachi (e finalmente ho scoperto chi sono), divinità indù e demonesse infernali scintoiste. 

All your base are belong to us

Ho scoperto che l’inferno dantesco ha un sacco di cose in comune con l’aldilà di non so più quale credo orientale, anzi l’iconografia che usano da queste parti non ha nulla da invidiare alla nostra in quanto a fantasia e truculenza.

E qui finsice la mia giornata, le visite sono terminate. Ma c’è un ultima prova che mi attende: il labirinto infernale (giusto per rimanere in tema). Prendo la metro, scendo alla mia fermata trascinando stancamente i piedi e pensando al pezzo di strada che mi attende per arrivare a casa (non più di 10 minuti, ma a fine giornata sembrano tantissimi) e salgo in superficie. Dal lato sbagliato della strada. Come faccio ad attraversare? Cerco con lo sguardo un passaggio pedonale, un semaforo… niente. A quel punto mi tornano alla mente le parole di Mary: “Qui per attraversare la strada devi fare il sottopassaggio.” Shit. Torno di sotto, e… e mo da che parte vado? Che strada ho fatto stamattina? Inizio ad aggirarmi per il labirintico centro commerciale che c’è sottoterra. Uno potrebbe camminare per chilometri e chilometri senza mai vedere la luce del sole, a Singapore. C’è una vera e propria città sotterranea. Anzi, tutto il sottosuolo dell’isola dev’essere sforacchiato peggio di un groviera per far posto a negozi, ristoranti, gallerie… almeno 3 o 4 livelli sotto terra, da quello che ho visto.

Maledetto mostro. Ma ti ho domato!

Ma non è quello che mi interessa, ora. Ora voglio solo tornare a casa! Non so quante volte sono uscita, sempre dalla parte sbagliata. A un certo punto ho pensato di prendere un taxi solo per attraversare la strada (e chi mi becca la citazione cinematografica, vince una menzione speciale nel prossimo post). Ogni volta che uscivo, mi allontanavo sempre di più dal luogo che in realtà volevo raggiungere. Se non l’avessi presa sul ridere – quando sono molto stanca, rido – sarei scoppiata a piangere. A un certo punto ho persino beccato 50 persone che occupavano il marciapiede facendo balli di gruppo. Siete mitici!!! Ma fuori dai piedi, che voglio tornare a casa. Finché non metto in moto il cervello e mi sforzo per decifrare le indicazioni all’ingresso della metro. Tonta. Che Tonta che sono. Era così semplice! Inizio a ridere fra me e me – ma di sicuro avevo un gran ghigno stampato in faccia – e accorro finalmente verso l’uscita corretta. Sìììì! Ce l’ho fatta! Il labirinto si merita un bel dito medio, e io finalmente posso rientrare a casa.

Ma quanto ho parlato! Tranquilli, per oggi vi ho tediati abbastanza. Ciò che mi è successo nei giorni seguenti ve lo racconto al prossimo post. Ma mi devo sbrigare, è quasi ora di lasciare Singapore!