giovedì 10 novembre 2016

Happily ever after, and sober

Quanto tempo che non scrivo!
Nelle ultime settimane sono successe un sacco di piccole cose che meriterebbero di essere raccontate - o forse è il vizio dello scrittore che, come ho letto una volta in una descrizione molto efficace, fa di un cumulo di terriccio una montagna?

Ma non perdiamoci in tali riflessioni fini a sé stesse, ché il tempo è poco e, conoscendomi, le parole da buttare giù sono molte.

Oggi racconto di una giornata che ha avuto luogo ormai un mese fa, in cui si è verificato un evento particolare e ho vissuto un'esperienza tutta nuova: ho partecipato a un matrimonio.

A differenza delle mie compagne dell'odierna avventura, finora sono stata a parecchi matrimoni in vita mia, ma mai a uno inglese. Ed è qui che sta la particolarità.

La sposa è una deliziosa ex collega del mio precedente posto di lavoro, altrimenti noto come Il Posto di Merda. Megan è una delle poche autoctone con cui ho legato qui a Londra; non ci si vede né ci si sente spesso, ma ci si frequenta abbastanza e soprattutto condividiamo un interesse comune - Doctor Who - che ci ha permesso di rimanere in contatto anche quando ho cambiato lavoro. E tuttavia non mi aspettavo che sarei addirittura stata invitata al suo matrimonio!

E invece una sera torno a casa e mi trovo una busta marrone, al cui interno c'era una busta rossa chiusa con un sigillo di ceralacca, al cui interno c'era il mio invito! Che gioia! I matrimoni possono essere un po' un impegno - specie se ricevi l'invito tre settimane prima della data - ma fa piacere essere ricordati per un simile evento, no?

Inizio a pensare alla mise, ai capelli, al trucco, alla logistica; scopro che altre cinque ex colleghe sono invitate, quindi inizia la messaggistica folle per scoprire come ci si veste, cosa si regala, e soprattutto come si raggiungono i luoghi dell'evento. Mica uno solo, eh. La cerimonia, all'1 di un sabato pomeriggio, è nel punto A, nella campagna inglese; il ricevimento, con cena a buffet a partire dalle 7.30 di sera, è nel punto B, ad almeno 15 km più in là. Noi siamo a Londra, ovvero il punto Z, a un'ora di treno dal punto A. Mentre siamo occupate con questioni di tipo spaziale, inizia a farsi strada una domanda che contempla invece i limiti temporali: cosa faremo dalle 2 alle 7.30, a parte recarci al ricevimento?
È solo pochi giorni prima che giunge la conferma dalla sposa: non siamo invitate a tutto il ricevimento, ma praticamente solo alla torta. Cosa che mi è già successa, ma in circostanze estremamente diverse: prima di tutto, erano sempre matrimoni vicino a casa. E, più importante, ero automunita.

Nulla, non ci resta che fare buon viso a cattiva sorte e rassegnarci a passare il tempo in qualche modo. Nel frattempo si fa strada un'altra agghiacciante eventualità: attuali colleghi e conoscenti - per qualche motivo, ho il vizio di coinvolgere nelle mie avventure chiunque mi stia intorno - insinuano che potrebbe non esserci alcol per noi, a parte quello del brindisi. È una possibilità a cui non voglio pensare, per il momento.

Dicevo quindi che mi ritrovo a coinvolgere tutti, come una titanica impresa di gruppo, nella preparazione di questo matrimonio, manco fosse il mio: la collega Francesca viene a farmi il colore ai capelli, la coinquilina Erika si fa cambiare turno per farmi il trucco sabato mattina, la mia manager si informa quotidianamente a che punto sia coi preparativi, l'amica di Maracatù Fernanda mi presta una pochette nera, persino l'estetista iraniana del salone dove vado solitamente si raccomanda che mi diverta e possibilmente che trovi marito. Venerdì volo via dall'ufficio per poter affrontare gli ultimi preparativi, e colleghi con cui mi rivolgo la parola a malapena mi urlano: "Buon divertimento!"

Insomma, le aspettative erano alte per tutti.

Sabato si apre su una giornata fortunatamente decente, fresca ma almeno asciutta. I preparativi vanno come da copione (e non ho menzionato l'agghiacciante scoperta di appena pochi giorni prima: dopo aver studiato la mise in tutti i suoi dettagli, mi ero resa conto con sgomento che le scarpe che intendevo mettere erano in realtà in Italia, ergo ho dovuto ripensare a un nuovo outfit - impresa portata a termine con successo), esco di casa e arrivo in stazione in orario. Mi incontro con le altre ragazze e partiamo alla volta del Surrey. Dov'è il Surrey? Qui:


Dopo un'ora di treno, ci attende ancora una camminata da 20 minuti, che diventano pure 35 se cammini sui trampoli. Io sono stata furba e le scarpe le ho messe solo una volta giunta a destinazione (questo non vuol dire che abbia camminato scalza dalla stazione fino in chiesa, eh), ovvero una di quelle tipiche chiese British gotiche? neogotiche? finto-gotiche? Wikipedia ci viene in aiuto e ci dice che la chiesa in questione risale a metà '800, quindi inseritela voi nella categoria che più vi piace; dicevo, una di quelle tipiche chiese della campagna inglese che da fuori sono tanto pittoresche, ma dentro sono piuttosto spoglie e soprattutto una uguale all'altra. In ogni caso, sono molto curiosa: come ho già detto, sarà il mio primo matrimonio inglese, addirittura di rito anglicano poi. Non ho quindi modo di fare paragoni né di stilare canoni socio-culturali, ma mi pare di capire che i ruoli sono molto più rigidi dei matrimoni italiani. All'ingresso della chiesa ci sono due uscieri che ti indirizzano a due ingressi diversi a seconda che tu sia un invitato dello sposo o della sposa. Tutti vestiti uguali, io pensavo che fossero impiegati clericali, e invece erano invitati anche loro, scelti fra gli amici della coppia.
Poco prima della cerimonia il prete esce e fa le ultime raccomandazioni: spegnete i cellulari, non fate video durante i canti per questioni di copyright (???), rispondete così e cosà quando siete interpellati, non scappate alla fine della cerimonia.
Poco dopo l'1 il coro si accomoda sull'altare e parte la classica musica da matrimonio #1, sulla quale fanno il loro ingresso le otto damigelle, tutte vestite di rosso. Mi viene immediatamente in mente Erika, la mia coinquilina svedese, la quale pochi giorni prima mi aveva raccontato che in Svezia secondo la tradizione se ti vesti di rosso ai matrimoni significa che sei andata a letto con lo sposo.
Segue la sposa, con un semplicissimo abito bianco, accompagnata dalla mamma, una signora forse ancora più raggiante della figlia, anche lei vestita di rosso.

La prima cosa da dire dei matrimoni anglicani: sono corti. Non sono inseriti all'interno della messa come i nostri: cantano un po', leggono un paio di brani, il prete celebra il matrimonio vero e proprio, dice due parole di quella che sarebbe la predica, firma, puoi baciare la sposa, è fatta. Oh, e chiede davvero: Se qualcuno si oppone a questo matrimonio, parli ora ecc. All'inizio della cerimonia, così ci si toglie subito il pensiero. Il nostro prete ha fatto anche una enfatica pausa, tanto per essere ben sicuro. Un vero intrattenitore. Per fortuna nessuno ha detto nulla, e la cerimonia è proseguita. Dicevo, un paio di letture. Realizzo solo ora che non c'è stato alcun brano dal vangelo, ma solo la classica lettura dai Corinzi (dai, anche se non andate a messa da un po', questa sicuramente l'avrete sentita) e un brano molto meno scontato, dal titolo A lovely love story. Una storia d'amore fra due draghi. Giuro. La ragazza che è salita sull'altare a leggere faceva persino le vocine. Sul libretto che ci è stato dato all'ingresso c'è scritto che la storia è adattata da un racconto di tale Edward Monkton. Più tardi a casa ho fatto un po' di ricerca, e ho scoperto che è un brano molto popolare ai matrimoni. Comprendo inoltre il perché di quell'"adattata": la storia originale non parla di draghi, ma di dinosauri. Il fatto che gli sposi siano fan di Game of Thrones potrebbe c'entrare qualcosa con la modifica.

Oltre alle letture, dicevo che abbiamo (hanno) cantato: su questo lato mi sono sembrati un po' più tradizionalisti, con l'esecuzione di inni che boh, noi forse ai tempi del Don Angelo. Un brano però mi ha intrigato, intitolato Lord of the Dance: io subito ho pensato all'omonimo show di danza irlandese, anche se naturalmente, mi sono detta, deve trattarsi solo di un caso. E invece no! Al primo ritornello ho riconosciuto la melodia, è proprio quella dello spettacolo di Michael Flatley! Vi risparmio i risultati delle mie successive ricerche in materia; fatto sta che per tutti i giorni seguenti il motivetto mi era ben piantato in testa. Sto addirittura considerando di iscrivermi a un corso di danze irlandesi.

E per concludere, rimanendo in tema musicale, dopo aver firmato i registri i neosposi lasciano la chiesa sulle note della classica musica da matrimonio #2. A questo punto nasce qualche perplessità, almeno nei cuori di noi povere forestiere - le uniche non inglesi della giornata - circa il da farsi, anche se in realtà sembrano tutti abbastanza confusi, finché una delle damigelle non ci indirizza sul vialetto di ingresso della chiesa che porta all'ingresso principale. I due sposi lo percorreranno passando in mezzo a due file di invitati, i quali lanceranno confettis. Che, fortunatamente, non sono confetti ma coriandoli. Dopo qualche foto di gruppo, accadono in rapida successione due cose: tutta la compagnia si dilegua, e comincia a piovere. A noi non resta che trovare un luogo al chiuso dove passare le successive cinque (5) ore, e ci rechiamo quindi al pub più vicino con la sensazione di essere le uniche a non partecipare a tutta la festa. In realtà nel pub troviamo un altro gruppo di invitati di serie B; io vorrei socializzare, ma le altre non sono molto per la quale, quindi ci mettiamo a un tavolo e facciamo le ghettizzate.

C'è qualcosa che mi affascina nell'attesa, non nell'attesa di qualcosa, ma nell'attesa di fare qualcosa. Non so perché la differenza è importante, forse perché mi fa pensare a quei romanzi in cui la spia X soggiorna all'hotel Y apparentemente ad oziare, mentre in realtà aspetta che arrivi l'agente Z e che la missione inizi. Forse è il fatto di non dover fare altro che lasciar scorrere il tempo. La tempesta che infuria fuori offre anche la consolazione di pensare che tutto sommato non sto completamente sprecando le mie ore, ma dopo una settimana - o tante settimane - di corse frenetiche, di impegni serrati, ora posso semplicemente stare qui a non fare un cazzo. Occasionalmente arrivano da Serena, l'unica di noi invitata a tutto il matrimonio, foto e aggiornamenti sull'andamento della festa. Il lancio del bouquet, il taglio della torta... insomma, più passano le ore e più mi chiedo cosa rimarrà da fare quando sarà per noi l'ora di andare. Che alla fine arriva. Intorno alle 19 chiamiamo un taxi, che ci porta al luogo del ricevimento, in un golf club. Ha pure smesso di piovere.

Il luogo è abbastanza remoto, e il tassista sta perdendo la fede... ma finalmente arriviamo all'ingresso. Dove non c'è nessuno che ci accoglie, ma alla vista di gente elegante capiamo di essere nel posto giusto. Dall'atrio parte un corridoio che a destra porta in una saletta laterale dove intravediamo un TARDIS, un trono di spade, maschere, mantelli e bacchette magiche. È decisamente il matrimonio giusto. L'altro braccio del corridoio porta al salone principale. Le mie compagne sono talmente intimidite e inesperte di matrimoni (ai quali, ne converrete, bisogna portare anche un po' di faccia da culo) che se non fosse per un invitato casuale che ci spinge verso la festa saremmo ancora lì a decidere cosa fare. Arriviamo giusto in tempo per l'apertura delle danze, una cover stile ballad di 500 miles dei Proclaimers. Nella folla individuiamo Serena, che non ha perso tempo a fare amicizia con gli altri invitati. Noi ci sentiamo un po' fuori luogo, la sensazione è quella di arrivare in ritardo a una festa dove tutti sono già ubriachi. No, non è la sensazione, è esattamente così. La soluzione quindi è quella di bere. È il momento della verità: drink a pagamento o open bar? La suspense è tenace, e si scioglie solo nel momento in cui un'invitata accanto a noi al bancone del bar tira fuori la carta di credito. Le peggiori supposizioni si sono rivelate esatte. A parziale consolazione, Serena ci fa sapere che ogni invitato ha diritto a una birra rossa in onore del padre di Megan, che è venuto a mancare qualche anno fa, il quale amava provare sempre nuove varietà di ale.

Forse dirò una bestialità, ma provate voi a ballare in una sala piena di estranei con il solo aiuto di una birra... Ok, ho detto una bestialità, ma chi mi conosce sa che il ballo non mi viene molto naturale, e una percentuale alcolica più alta avrebbe aiutato. Inoltre gli altri invitati non sono neanche particolarmente socievoli, o per lo meno non nei nostri confronti. Non ci resta che metterci a mangiare, la cena a buffet sta per essere servita. Il tavolo è incredibilmente piccolo, in un angolo della sala, ed è apparecchiato con sandwich, sausage roll, polpa di granchio, involtini primavera, mini quiche e fette della torta nuziale. Appare pure un piccolo TARDIS.

Via, diciamolo: a parte l'ovvia felicità per Megan, che finalmente riusciamo a vedere a un certo punto della serata, confesso che la festa è stata un po' deludente, e penso di poter dire che questa sia stata opinione condivisa di tutta la nostra combriccola. Noi, fiduciose, avevamo prenotato il taxi per il ritorno alle 23.30 - ma no! Facciamo mezzanotte! Come Cenerentola! Ma quando alle 23 si sono accese le luci e gli sposi hanno congedato tutti, ammetto che ho tirato un sospiro di sollievo interiore. Certo, c'era sempre da aspettare il taxi, alle 23.30 scarse eccolo lì all'ingresso, e noi pronte in macchina per tornare a casa. Il viaggio di rientro è abbastanza mesto; dopotutto, è stata una lunga giornata. Forse qualcuno si addormenta anche in macchina. Ci pensa poi il freddo della notte di King's Cross a svegliarci - c'è ancora il tragitto in bus per arrivare a casa. Non è tardissimo, ma fa freschino, in fin dei conti sono vestita leggera per i miei canoni londinesi, e quando arrivo a casa è con immenso piacere che mando all'aria la mise matrimoniale e mi metto a dormire. Sempre con Lord of the Dance in testa. Domani, o fra un mese, sarà il tempo per raccontare la mia giornata.  

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